Recensione a «The Game» di Alessandro Baricco (Torino, Einaudi, 2018)

Recensione a The Game di Alessandro Baricco (Torino, 2018)

di Carmelo Occhipinti
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Un libro come The Game poteva benissimo uscire dalla penna di uno scrittore americano. Oppure giapponese. O tedesco.

Dobbiamo renderne merito al suo autore. D’altronde lo stesso Baricco dice che il «game» è una «una partita per tutti», dove ciò che conta sono i numeri. E quando si hanno i numeri si vince. E Baricco vince, perché sa raggiungere un pubblico sempre così vasto.

Nel «game», insomma, importante è esserci: americani, giapponesi, tedeschi, italiani, tutti lì dentro sempre più numerosi, nella nuova grande patria dell’umanità che sta diventando il web, dove le distanze culturali che da sempre ci rendevano diversi finiscono per annullarsi, giacché tutti diventiamo dei numeri.

Ma, dunque, quando Baricco si cimenta su argomenti di ‘storia’, lo fa, per così dire, da cittadino del web piuttosto che da studioso italiano, quasi che la cultura italiana, l’identità italiana, la tradizione italiana fossero ormai roba vecchia e superata: tant’è che sulle pagine di The Game la nostra povera Italia finisce per comparire solamente a proposito di quella formazione politica che dovrebbe a buon diritto considerarsi come uno dei prodotti della cosiddetta «insurrezione digitale», cioè il Movimento 5 Stelle. Non mi sembra, poi, che di Italia e di Italiani si dica molto altro dentro questo libro, che è un libro che parla di noi, è vero: solo che noi potremmo benissimo essere americani, giapponesi o tedeschi.

Eppure, nonostante il titolo, The Game è scritto in lingua italiana da uno scrittore che pure usa la sua lingua con una certa abilità, riuscendo sempre particolarmente piacevole. Ma come capita a Baricco capita a tutti noi, quando parliamo o quando scriviamo, di dimenticare che le parole di cui ci serviamo vengono dal passato, talvolta anche da molto lontano, e che ciascuna di esse ha una sua storia che faremmo bene, ogni tanto, a non ignorare, soprattutto mentre stiamo impegnandoci a scrivere un libro: dato che senza quel passato noi non ci saremmo, né saremmo come siamo, né penseremmo come pensiamo, in modo così diverso, noi Italiani, da come pensano gli Americani, i Giapponesi o i Tedeschi i quali, invero, parlano lingue diverse dalla nostra. Così anche quando cerchiamo di descrivere la modernità nella quale siamo immersi fino al collo, lo facciamo usando, senza avvedercene, parole ‘antiche’ alle quali inevitabilmente corrispondono vere e proprie categorie mentali ereditate dal nostro passato, che a loro volta condizionano, talvolta senza che ce ne rendiamo conto, i nostri modi di fare storia, di guardare al rapporto tra passato e presente.

 

«Rivoluzione»

Per provare a spiegare cosa voglio dire, ho bisogno di soffermarmi sopra una delle parole più ricorrenti di tutto il libro di Baricco, che è «rivoluzione». La si incontra soprattutto nella prima metà di The Game in riferimento alla «rivoluzione digitale». Nella seconda metà del libro viene invece preferita l’espressione «insurrezione digitale», intesa «come processo di liberazione e di rivolta collettiva» contro la cosiddetta cultura novecentesca. In effetti, la tesi centrale di The Game è che l’avvento della nuova era del web – Google nasce, come Baricco ci ricorda, nel 1998 (p. 64) – ci abbia liberati dal Novecento, in particolare da tutti i paradigmi mentali appartenenti a un secolo che è stato uno dei più rovinosi della storia dell’umanità: l’effetto di tale liberazione è stato talmente dirompente da potersi paragonare a quello di una rivoluzione, appunto. La «rivoluzione digitale», vista come conseguenza di una «rivoluzione mentale» (p. 27) avrebbe dunque travolto tutto ciò che c’era prima: è stato come assistere alla fine del mondo (di quello vecchio, naturalmente), a una vera e propria «apocalisse culturale» – detto a proposito di Twitter la cui nascita ha fatto sì che niente più fosse com’era prima (p. 127) –. Del resto la nozione stessa di «rivoluzione» implica da sempre l’idea di una benefica distruzione del passato, di un violento annullamento della storia: altrimenti non sarebbe possibile ripartire da un nuovo inizio, in direzione di un mondo migliore, interamente rinnovato rispetto ad un detestatissimo passato, spazzato via dalla rivoluzione.

 

Rivoluzione e storia artistica

A questo punto, però, io devo provare a richiamare la nostra attenzione su ciò che solitamente tendiamo a non vedere. Sarebbe bene, per riuscirci, immaginare di guardarci dal di fuori e da lontano.

Per il momento, dunque, mettiamo da parte The Game, su cui ritorneremo tra qualche pagina.

 

Ecco. Noi Italiani abbiamo iniziato a credere nell’idea della rivoluzione, invero da sempre estranea alla nostra mentalità, precisamente all’inizio del XIX secolo – sono già più di duecento anni – da quando cioè si impose fra di noi quel modo di pensare venuto dalla Francia, dove la Rivoluzione si era fatta per davvero: quel modo di pensare secondo cui, cioè, per potere rinnovare il mondo bisognasse distruggere il vecchio, dichiarare guerra al passato, cancellare la storia, insomma ricominciare dall’inizio. (Nota bene: prima di quegli eventi che sconvolsero la Francia alla fine del Settecento, il termine «rivoluzione» serviva solo per descrivere il movimento ciclico dei pianeti attorno al sole).

Non a caso – provo adesso a fare un esempio facile, perché tutti possano seguirmi – furono gli scrittori francesi, proprio all’inizio dell’Ottocento, i primi a parlare di un Caravaggio ‘rivoluzionario’, da loro ritenuto tale perché capace, secondo il nuovo modo di pensare, di rinnegare qualsivoglia maestro del passato nonché la storia tutta intera, e di tagliare i ponti con le epoche precedenti per potere così intraprendere un cammino completamente nuovo. Allora sull’esempio dei Francesi, a Ottocento ormai inoltrato, gli Italiani credettero di riconoscere in un grande artista contemporaneo com’era Antonio Canova un vero e proprio ‘rivoluzionario’, apprezzandone cioè la capacità audacissima di rinnegare l’intera tradizione italiana, da Michelangelo fino a tutta l’età barocca, così da rinnovare radicalmente – in maniera, insomma, rivoluzionaria – il linguaggio della scultura moderna. Vale la pena di insistere su un fatto: mai prima di allora, in Italia, nessun artista era stato ritenuto grande per aver condannato il passato e rinnegato la storia. Al contrario, si era sempre pensato che la grandezza di qualsivoglia artista dovesse consistere nella capacità di guardare all’insegnamento dei maestri, magari fino a superarli: come noi siamo abituati a pensare almeno fino dai tempi di Dante, Giotto era diventato grande perché aveva saputo guardare all’insegnamento di Cimabue per superarlo, fino poi a metterlo in ombra. Ma senza Cimabue non ci sarebbe stato Giotto: questo è sempre stato il nostro modo di pensare, e in ciò credo che sia consistita la forza che ha inesauribilmente alimentato, in ogni epoca, la nostra creatività, e fondato la nostra tradizione. E contraddistinto la nostra identità di Italiani.

 

Ma l’idea di rivoluzionare tutto, originatasi in seno a culture straniere che pure avevano sempre ammirato e invidiato l’Italia, era destinata ad attecchire ovunque lungo tutto il XX secolo, specialmente al tempo delle Avanguardie storiche: era la convinzione che per poter guardare al secolo nuovo che si era spalancato occorresse dimenticare il precedente, cancellandone la storia, eliminandone i modelli di riferimento, abbattendone le strutture sociali e politiche, ripartendo così dall’inizio per trovare, in certo qual modo, una rinnovata verginità, un’idealizzata primitiva innocenza.

Allora toccò ad un giovanissimo studioso italiano, Roberto Longhi, rilanciare un mito che sarebbe stato caro a tutto il XX secolo: quello, cioè, di un Caravaggio ‘rivoluzionario’, che rispondeva bene, mentre da noi imperversavano i Futuristi, alla moderna infatuazione per il progresso; in definitiva, non diversamente dai maestri dell’Avanguardia, a Caravaggio si riconobbe il merito di aver azzerato il tempo, annullato il passato per ricominciare dall’inizio, aprendo dunque il cammino nuovo della modernità. Un simile modo di rivisitare il passato, al principio del XX secolo, era perfettamente in linea con le esigenze della cultura contemporanea.

Oggi però, a distanza di un secolo dal Futurismo, una simile valutazione di Caravaggio appare datata, proprio perché basata sulla categoria ormai desueta della ‘rivoluzione’[1]: tant’è che preferiamo spiegare la grandezza di Caravaggio in modo meglio rispondente alla sensibilità attuale, in considerazione cioè del bisogno sempre più diffuso tra i nostri giovani di ritrovare quelle radici che le tante rivoluzioni del Novecento ci hanno fatto perdere, di recuperare quel senso storico di identità culturale che i tempi truci in cui viviamo stanno finendo per dissolvere. Tant’è che ormai preferiamo esaltare la grandezza di Caravaggio – convincendoci, quindi, di poter imparare qualcosa dal suo esempio – col fare riferimento alla sua capacità di guardare al passato, non solo verso la statuaria classica ma anche verso Leonardo, Raffaello, Correggio, Michelangelo e Tiziano coi quali tutti il Merisi dovette davvero porsi in competizione per trovare la forza di proiettarsi così audacemente verso il futuro: la pensiamo, evidentemente, in modo del tutto opposto rispetto al giovane Longhi proprio perché il paradigma mentale della «rivoluzione», così specificamente novecentesco – proveniente da un mondo diverso da quello in cui, dopo tante rivoluzioni, appunto, ci troviamo oggi a vivere, poveri noi! – ci appare decrepito, inattuale, non più rispondente alla sensibilità del nostro tempo.

Non è da meravigliarsi se oggi tra i più giovani non se ne trovi più nessuno che si sogni di fare la ‘rivoluzione’, mentre invece alla rivoluzione avevano creduto i nostri padri e i nostri nonni, i quali così tanta fiducia avevano riposto nella modernità, nel progresso, nel futuro fino a sacrificare la loro stessa vita per fare la guerra. Così, adesso, guardandoci indietro, guardando a tanta loro fiducia nel futuro, nelle sorti magnifiche e progressive, cosa vediamo? Vediamo niente altro che il progressivo impoverimento del mondo! Il Novecento ci aveva ubriacati con questa idea della rivoluzione: che significava dover sempre ripartire da zero, rimettere in discussione l’intero passato, distruggere tutto, uccidere i giganti sulle cui spalle guardavamo lontano, per ridiventare nani e, dunque, incapaci di vedere oltre il nostro presente.

D’altra parte, come ci insegna la storia, non c’è rivoluzione che non significhi catastrofe e distruzione, che poi non richieda uno sforzo immane di ricostruzione volto alla ricerca, tra le macerie fumanti del passato, di ciò che di buono la rivoluzione intendeva portare.

 

Digitale: ma quale meravigliosa «apocalisse culturale»?

Ora, è indubbio che la cosiddetta rivoluzione digitale voluta anzitutto dagli ingegneri americani abbia cambiato il mondo. Ma non dobbiamo sentirci costretti, noi umanisti, a ritenere che il mondo sia stato cambiato in meglio, solo per non correre il rischio di sembrare retrivi.

Retrivo sarà Baricco! Perché il suo libro – torniamo, a questo punto, sulle pagine di The Game – è tutto costruito su uno degli schemi mentali novecenteschi più obsoleti, com’è quello della rivoluzione che cambia il mondo. Addirittura, sulla scia di modi di pensare superatissimi, il paradigma della ‘rivoluzione’ serve a riattivare, nel testo di Baricco, una serie di metafore belliche che invero discendono tutte, ma proprio direttamente, dalla cultura novecentesca, se non persino da quella ottocentesca: a iniziare dalla nozione di «avanguardia» (impostasi al tempo dei moti rivoluzionari del XIX secolo), fino a quella di «guerra di resistenza», adoperata da Baricco in riferimento alla guerra che si starebbe combattendo contro il «Game» (pp. 155 e 182), dove – attenzione! – «resistenza» assume un valore negativo, giacché il «nemico» da combattere non è certo il «Game» bensì – santo cielo! – la cultura, ovvero la cultura del Novecento (p. 173). In nome del «Game», quindi, occorrerebbe che tutti noi ci unissimo in una vera e propria «lotta libertaria» (p. 313): ma quando Baricco si riferisce – devo qui ritornare sulle stesse parole che citavo prima – alla «insurrezione digitale come processo di liberazione e di rivolta collettiva» (p. 106), io non posso fare a meno di ripensare a una certa, sgradevolissima mentalità anni Sessanta che più estranea non potrebbe essere ai giovani che stanno per vivere i loro vent’anni sulla soglia degli anni Venti. Che bella «rivoluzione», che bella «insurrezione», che bel salto indietro di mezzo secolo! Se pensiamo a certi Sessantottini che, a stento laureati, sono ancora oggi al potere, appartenenti a una generazione che si è mangiata tutto, che ci ha impoveriti fino a ridurre i nostri giovani – plurilaureati, pluriaddottorati, plurispecializzati –, a doversi cercare un futuro fuori dall’Italia, visto che l’Italia devastata da tante rivoluzioni, compresa quella digitale, non ha da offrire loro niente di niente! Ma posso pure capire che i Sessantottini, oggi decrepiti, abbiano trovato nel web una loro rinnovata giovinezza!

Oh quale meravigliosa «apocalisse culturale» (p. 127)!

 

Questione di parole? Non credo proprio: perché alle parole corrispondono i modi di pensare.

Ora, il mutamento epocale che Baricco ravvisa, a conseguenza dell’avvento del web, a cavallo tra XX e XXI secolo, avrebbe secondo lui comportato – così come succede dopo ogni rivoluzione che si rispetti – un totale azzeramento della storia. Una cancellazione di tutto. Tutto che ricomincia dal niente. Un mondo nuovo che nasce dalle rovine di quello vecchio, travolto dall’apocalisse. Quasi da indurci davvero a ritenere che prima degli anni Ottanta, quando i primi personal computers entrarono nelle nostre case, non vi fosse niente altro che la preistoria, un mondo di primitivi, uomini analfabeti ancora da civilizzare. In effetti la storia, come Baricco ce la racconta, cominciava proprio da quegli Ibm, dai Commodore64, dai Mac… Ed è la storia che molti di noi hanno vissuto, la storia degli ultimi decenni.

Ma questo schema mentale della rivoluzione che cancella la storia mi sembra che sia molto limitante e molto dannoso, per diverse ragioni. Non solo perché produce una così falsata percezione del presente, del passato e del futuro. Ma anche perché spinge tutti noi a disprezzare le scuole, l’università, i professori, gli umanisti. Addirittura Baricco – che ostenta disprezzo profondo per l’intera categoria dei professori universitari – arriva a dire che in futuro andare a scuola sarà sempre più inutile, visto che a scuola si continua a raccontare una storia molto diversa da come la concepisce lui, una storia vecchia, non più attraente agli occhi dei post-millennials che sono proiettati verso un futuro fantascientifico, dove gli uomini si sposteranno per teletrasporto e, ridiventati animaletti innocenti, si affideranno, anima e corpo, alla intelligenza artificiale.

Attenzione: il disprezzo per i professori e per l’accademia come traspare da ogni pagina di The Game non è molto diverso dal disprezzo che i nostri Futuristi nutrivano per le istituzioni, per la tradizione, per le roccaforti del sapere, per i vati, i «sacerdoti», come li chiama Baricco.

 

In realtà, le cose potrebbero essere viste – e forse sarebbe meglio vederle – in altro modo. Anzitutto il web non chiude per niente il Novecento, perché non c’è niente di più novecentesco del web (una volta Baricco se lo lascia pure sfuggire, quando dice che Arpanet è nato nel pieno della Guerra fredda, cioè negli anni Sessanta). La cosiddetta rivoluzione digitale di cui tutti noi non facciamo altro che parlare non smantella proprio nessun paradigma culturale novecentesco – il libro stesso di Baricco ne è la dimostrazione –, ma per il semplicissimo fatto che essa si colloca lungo una linea fortissima di continuità col secolo che ci siamo lasciati alle spalle, trascorso tutto all’insegna della rivoluzione che mira a cancellare della storia. L’avvento del web non sarebbe altro che l’esito ultimo del Novecento, non un imprevisto, né un incidente di percorso (come vorrebbe farci credere Baricco): siamo noi che, futuristicamente, abbiamo bisogno di credere che stiamo vivendo una rivoluzione epocale. Una rivoluzione continua! Il Novecento in realtà prosegue negli anni Duemila proprio grazie all’avvento del web, che potrebbe considerarsi l’ultima rivoluzione del Novecento, l’ultimo tentativo – ma in realtà uno dei tanti – di distruggere il mondo.

Se invece provassimo ad ascoltare i messaggi provenienti dagli artisti contemporanei, specialmente quelli dell’ultima generazione, i quali sembrano interessati più al passato che al futuro, più alle radici che alla fantascienza, ci accorgeremmo come anche il paradigma dell’«avanguardia» – dell’arte come rottura – appaia ai loro occhi come ormai completamente esaurito.

 

Tantissimi passaggi di The Game non convincono per niente, non solo a motivo di questa sua impostazione che fa leva su schemi mentali che potevano andar bene cento anni fa, in pieno Futurismo. Non convince tanta futuristica fiducia per il web che, in quanto «democratico», ci renderebbe tutti liberi. Baricco usa pure le lettere maiuscole per dire che «SI TRATTA DI INDIVIDUI», cioè «di tanti umani singoli, e questo, credetemi, non ha quasi precedenti» (p. 212). È vero che la caduta delle ideologie ha liberato le nostre menti, prima asservite a certi schemi mentali, a certe categorie, a certi condizionamenti politici…; ma arrivare a parlare di una presunta «ricostruzione dell’ego» (pp. 212-213) resa possibile grazie al web mi pare proprio esagerato, tanto più se la conclusione è questa: «l’unico caso precedente che mi viene in mente è, forse, la democrazia ateniese del V secolo a. C., che era effettivamente una sorta di regime di individualismo di massa […]» (p. 213). Diamine, sembra che a scrivere queste cose sia un sanculotto, addirittura Robespierre in persona: non dimentichiamoci che i rivoluzionari francesi idealizzarono la democrazia ateniese al punto da credere di vederla resuscitata pure negli anni del Terrore. Ma buon per lui, se crede veramente che la rivoluzione digitale abbia fatto rinascere nientemeno che la democrazia ateniese!

Io non credo proprio che il ruolo dell’individuo – chiamiamolo pure ‘cittadino’ – sia diventato così centrale nella società contemporanea, devastata com’è da questa interminabile crisi finanziaria di dimensioni globali, che è strettamente legata alla perdita progressiva delle nostre identità storiche. Non è che solo perché tutti hanno Facebook e postano video su Youtube e twittano ogni cinque minuti, possiamo dirci liberi di autodeterminare la nostra esistenza, di scegliere cosa fare della nostra vita, schiacciati come siamo dall’oppressione del sistema che tutto decide del nostro futuro. Che fine ha fatto l’homo faber rinascimentale? A quanto sento dire ai colleghi della Facoltà di Medicina, cui vorrei non credere, il volume medio del cervello umano sta iniziando a decrescere: ma forse questa cosa potrebbe far comodo a quei pochi uomini che saranno i futuri dominatori del mondo?

Insomma, quando Baricco parla entusiasticamente di questa ondata di «individualismo di massa» che il web avrebbe reso così impetuosa, in realtà io penso ad una specie di ritorno al medioevo: ma non al medioevo come lo intendono gli storici del nostro tempo, cioè come quel momento fervidissimo di elaborazione e di assimilazione culturale che è all’origine delle nostre civiltà nazionali; bensì a un medioevo inteso come lo si intendeva in epoca rinascimentale, cioè come periodo buio, di decadenza, di crisi, di imbarbarimento. Così non posso fare a meno di ripensare al protagonista di Soumission di Houellebecq, quel professore esperto di Huysmans che ad un certo punto sentì il desiderio di ritornare a visitare il convento medievale di Rocamadour, dove gli capitò di trovarsi di fronte alla famosa Vergine Nera; ebbene di fronte allo sguardo misterioso della Vergine Nera, capace ancora a incutere nei moderni osservatori sentimenti, appunto, di ‘sottomissione’, egli prese piena consapevolezza di quel senso angoscioso di perdita di identità, come se stessimo tutti noi ripiombando indietro fino a quelle lontane età medievali, all’epoca in cui, cioè, i destini dell’umanità non lasciavano alcuno spazio all’individuo: quando l’idea di una libertà individuale non si sapeva neppure cosa fosse, quando a essere condannato alla dannazione o a essere ammesso alla gloria del paradiso era il popolo cristiano tutto intero, non il singolo individuo.

Altro che democrazia ateniese del V secolo!

Dentro il gregge immenso di Facebook ognuno bela con la propria voce: il risultato è ugualmente un insieme di belati indistinti, dove magari qualche pecorone ci sembra primeggiare sugli altri, perché emette un belato più forte, più viscerale. Ma come facciamo a parlare di «individualismo» se stiamo riducendoci a non avere identità, né memoria, né radici, né profondità? La dittatura degli algoritmi ha bisogno di trasformarci tutti in un immenso gregge di pecoroni. La nostra numerosità conta molto di più di ogni singolo belato.

 

Ma veniamo al mondo degli scrittori, che Baricco conosce bene. Oggi la dittatura del sistema ha decretato che uno dei ‘letterati’ – diciamo così – più affermati del momento è il bravissimo, amatissimo Francesco Totti. Ma allora ci chiediamo dove siano finiti gli scrittori veri: quelli, voglio dire, che si nutrono del dialogo assiduo con i grandi del passato e che, dunque, ambiscono a essere ascoltati da qualcuno delle generazioni future, dato che le presenti sono distratte da tutti questi rumori della rivoluzione? Magari gli scrittori veri del nostro tempo verranno scoperti quando noi non ci saremo più, quando i riflettori non saranno più puntati su un Francesco Totti o su un Alessandro Baricco? La storia ci insegna invero che tanti grandi artisti, quelli capaci di guardare al futuro, sono stati, da parte dei loro stessi contemporanei, incompresi, talvolta ignorati oppure osteggiati (ripensate al povero Caravaggio!).

Il fatto è che gli editori, che per non soccombere stanno tutti prostituendosi alle leggi del sistema, preferiscono ignorarli, gli scrittori veri! Persino Einaudi stampa ormai qualunque cosa, purché assicuri un certo mercato: così The Game si pubblica solo perché il nome di Baricco di sicuro vende. Ma io avevo un’idea diversa di Einaudi quando, qualche anno fa, i libri che ne uscivano erano belli e curatissimi. Ora, purtroppo, mi devo ricredere. Vogliamo parlare di quanto sia poco curato il testo di The Game? Ma i revisori redazionali non potevano sistemaglielo meglio, prima di metterlo in circolazione? Quanti refusi, sviste, incongruenze e contraddizioni: come quando, per fare esempio, si racconta del «momento di fondazione del Game» cioè di quando esso «nacque», esattamente il 9 gennaio del 2007, giorno memorabile in cui Steve Jobs presentò al mondo intero l’iPhone (p. 316); solo che due pagine dopo si parla della «prima vera guerra di resistenza al Game» che «è stata combattuta, pacificamente, negli anni ‘90» (p. 318). Cari redattori di Einaudi, si vede che avevate fretta di pubblicare il libro! Ma diamine, pure con tutti i soldi che vi siete presi, queste pagine sembrano scritte coi piedi! Potevate riscriverle voi!

E che dire del raccontino della «rivoluzionaria postura fisica e mentale» che il videogioco Space Invaders stabiliva negli anni Ottanta, abituando tutti noi – c’ero anch’io! – a quel nuovo rapporto uomo/consolle/schermo? Il raccontino mi sembra che rasenti la demenzialità: ma esso è volutamente, ostentatamente demenziale, ed è un esempio mirabile di cosa poteva partorire quest’arte molto trendy dello storytelling, che sarebbe l’arte di dire senza avere niente da dire. I fautori dello storytelling sono del resto i veri fanatici della rivoluzione perché pretendono di annullare millenni di ars dicendi, screditando la storia della letteratura e, soprattutto, chi la studia. Brucerebbero le università, sarebbero capaci di usare la ghigliottina.

Troppo facile – per dirne un’altra – parlare del rapporto uomo-macchina fingendo che l’argomento sia vergine. Quando infatti Baricco si mette a parlare di «OSSESSIONE PER IL MOVIMENTO» (usando, a p. 93, pure le maiuscole), mi fa venire in mente quel signore coi baffi che si chiamava Filippo Tommaso. Leggete queste infinitive e ditemi se non ho ragione: «tirare giù tutti i muri… Demonizzare l’immobilità. Assumere il movimento come valore primo, necessario, totemico, indiscutibile» (p. 95).

 

E qui veniamo al mondo dei professori, quei «sacerdoti» che Baricco disprezza con tutte le sue forze, i «professoroni», come con disprezzo anche i politici ignoranti che ci governano si riferiscono alle persone che studiano, che fanno ricerca, che lavorano sui libri che sono stati scritti in tutte le epoche del passato. Screditare così chi studia è un segnale, inequivocabile e molto preoccupante, dell’imbarbarimento dei nostri tempi. Baricco arriva addirittura a esultare perché oggi, grazie al web, i professori sembrano «sull’orlo dell’estinzione» (p. 158). Buon per lui, se ci crede! Magari spera che un giorno il loro posto sarà occupato da macchine parlanti? Oppure sogna che Totti diventi ordinario di Letteratura italiana alla Sapienza? O insegnante alla Scuola Holden? Ma lui ci crede davvero che «il parere di milioni di incompetenti è più affidabile, se sei in grado di leggerlo, di quello di un esperto»! Diderot riteneva affidabili i pareri degli incompetenti, perché tutti i punti di vista gli parevano meritevoli di attenzione: ma con tutto ciò egli non intendeva, certo, gettare discredito sugli esperti!

Probabilmente Baricco crede che i professori di università, da lui tanto detestati, siano com’erano ai suoi tempi? Sapesse quanti studiosi seri esistono, molto più giovani di lui, trentenni e quarantenni che fanno ricerca, che lavorano per rinnovare le discipline umanistiche aggiornandole sulle nuove tecnologie, sulle digital humanities, e che non hanno tempo da perdere nei social, perché probabilmente hanno bisogno di concentrazione, per potersi anche dedicare alla lettura dei libri che richiede tempi lenti che il web non permette. Per quello che mi riguarda – io sono uno storico dell’arte –, il websta davvero cambiando la nostra percezione del passato artistico: d’altronde, la storia dell’arte si fa – da sempre – per rispondere a esigenze che appartengono al presente; così il modo di fare ricerca, didattica, divulgazione sta già mutando per effetto, per esempio, di nozioni nuove come quelle di «immersività», «performatività», «interattività»: nozioni nuove che, però, corrispondono a idee anche molto antiche di cui varrebbe la pena fare la storia. Ma noi non vediamo nessun conflitto tra cultura e web, tra passato e presente! Ma di quali professori parla Baricco?

 

Ci siamo liberati dai regimi totalitari e dalle ideologie: ma siamo sprofondati nel buio di un mondo controllato dal sistema, dove per potere esistere dobbiamo accettare la mortificazione di seguirne le regole. Altrimenti non siamo nessuno. È vero che nel web siamo liberi di andare dove vogliamo e di pascerci di tutti i prodotti dell’ingegno umano che vi troviamo fagocitati, musica, cinema, letteratura, pittura… Ma altro non siamo, oggi, che sciacalletti e iene, e perciò continueremo a crederci il sale della terra, mentre i giornalisti veri, gli studiosi veri, gli scrittori veri finiranno per estinguersi fin tanto che le loro fatiche serviranno ad arricchire, grazie ai proventi delle pubblicità, i soli proprietari dei siti internet: sciacalli!

 

Che sciocchezza, poi, dire che le opere d’arte pittorica, il teatro e la musica erano prima privilegio di pochi, mentre ora, grazie al web, sono diventate accessibili a tutti: qui sarebbe troppo complicato riassumere in poche parole la storia del rapporto tra gli artisti e il pubblico lungo gli ultimi secoli o lungo gli ultimi millenni, per spiegare perché l’arte è di tutti da sempre, e non certo solo da quanto esiste il web. Ma se un mio studente mi scrivesse sulle pagine della sua tesi di laurea che le opere d’arte una volta «erano oltremondo [sic] cari, riservati a pochi privilegiati, lenti nello srotolarsi, macchinosi nell’aprirsi…» (p. 304), lo pregherei di mettersi a studiare, prima di scrivere cose così sballate. Va bene, sono cose sballate che Baricco scrive fingendo di farsi interprete del punto di vista di un post-millennial. Ma è un punto di vista sbagliato e questo va detto: Diderot non mene voglia!

E va pure detto che mentre tutti siamo diventati così bravi a navigare in internet, non ci accorgiamo di quanto stia alterandosi la nostra percezione della storia, del tempo e dello spazio, di ciò che è vero e di ciò che è fake, perché stiamo perdendo il senso storico delle parole che usiamo, dell’ambiente in cui viviamo, delle opere d’arte che ci contentiamo di scrutare sullo schermo del nostro pc, smaterializzate e private della loro originaria fisicità, del loro contesto, della loro dimensione ‘tattile’: col risultato che quando, finalmente, ci troviamo davanti a un’opera d’arte vera, magari dentro un museo oppure in chiesa, ci sentiamo come smarriti, terrorizzati – proprio come il personaggio di Soumission di fronte alla Vergine Nera di Rocamadour – terrorizzati, dicevo, da quell’abissale distanza storica che sentiamo ormai separarci da quell’opera d’arte. Allora invochiamo la mediazione di un «sacerdote», capace di tradurre nella nostra lingua un linguaggio che non è più nostro.

Tanto più rassicurante starsene su Google, a cercare le opere d’arte!

 

Senza dubbio uno degli esiti più devastanti della rivoluzione digitale è stata la sottomissione degli umanisti, soggiogati dagli ingegneri che sono tuttora i dominatori del mondo: persino dentro le università gli umanisti devono obbedire ai diktat della burocrazia digitale che così gravemente offendono la creatività, l’intelligenza, la dignità umana. Non posso, dunque, che approvare queste parole di Baricco: «Fu certamente la freddezza del loro sapere [scil. degli ingegneri], e talvolta una sorta di ottusa insensibilità alle seduzioni dell’umano, che generò le condizioni per virare così drasticamente verso un patto con le macchine» (p. 109).

Ma se mai il nostro mondo dovesse salvarsi dalla autodistruzione che è in atto, ciò avverrà solo per merito degli umanisti: ogni volta che dico queste parole, a lezione o tra gli amici, ricevo segni di approvazione.

Come e quando avverrà – se mai avverrà – una vera riscossa degli umanisti non so dirlo. Io però ho l’impressione che qualcosa stia già muovendosi: a salvare il mondo sarà la scuola, saranno le università, che sono le vere scuole di scrittura. Dove, intanto, sta per arrivare l’esercito dei post-millennials. Cambieranno molte cose, tra poco. Vedremo!

 

[1] Baumann 2018, pp. XXXVI-XXXVII: «L’epoca delle rivoluzioni sistemiche è tramontata perché non esistono più roccaforti del potere da espugnare e anche perché è estremamente difficile, per non dire impossibile immaginare cosa potrebbero fare i vincitori, una volta penetrati al loro interno, per ribaltare la situazione e porre fine alla miseria che li portò a sollevarsi. Come sorprendersi dunque per la palese mancanza di aspiranti rivoluzionari, di quelli che articolano il desiderio di porre fine alle loro sofferenze individuali in un progetto volto a cambiare l’ordine della società?».

Carmelo Occhipinti

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