Recensione a: Serena Romano, «Apogeo e fine del medioevo (1288-1431). La pittura medievale a Roma (312-1431, Corpus VI)

di Fabio Mari

Ultimo volume di un’iniziativa editoriale curata da Jaca Book, Apogeo e fine del Medioevo chiude la parabola cronologica del Corpus-Atlante della pittura medievale a Roma, poderosa impresa editoriale cominciata nel 2006 e della quale quattro ulteriori volumi sono in attesa di pubblicazione[1]. Curato da Serena Romano, il libro copre il periodo che dall’elezione al soglio di Niccolò IV (1288-92) giunge alla stagione di Martino V (1417-31), pontefice che il 28 settembre 1420 rientra trionfalmente nell’Urbe a seguito della lunga cattività avignonese acclamato da un popolo festante che gli rivolge il grido «Viva papa Martino!»[2].

Il libro censisce il lascito pittorico romano in centoventicinque schede accompagnate da una lista di ulteriori trentaquattro opere non oggetto di un esame organico a causa delle condizioni conservative, trattandosi di dipinti ridotti in condizioni di estrema lacunosità o di illeggibilità. Come glialtri tomi del Corpus, il volume si apre con un denso saggio introduttivo cui seguono le schede. Queste si articolano in un’ampia disamina critica, un puntuale riepilogo degli interventi conservativi, la documentazione visiva disponibile e, elemento di non secondaria importanza, la registrazione dell’eventuale corredo epigrafico. A render possibile un lavoro di tale portata, le schede sono frutto di una collaborazione fra la curatrice e un nutrito gruppo di studiosi. Uno dei tanti punti di forza del libro è costituito dalle illustrazioni, sempre a colori e a volte sorprendenti per resa del dettaglio, che consentono di osservare sotto una nuova luce – e a volte anche per la prima volta – le opere analizzate, valorizzandole soprattutto in rapporto al contesto architettonico: in questo senso di valore straordinario è il corredo fotografico che accompagna le schede relative al cantiere della basilica di Santa Maria Maggiore, che per la prima volta consente di osservare con pienezza di dettaglio il cantiere musivo della facciata e i clipei del transetto.

Copre poco meno di un secolo e mezzo il ventaglio cronologico preso in considerazione da questo volume, avviato dal breve pontificato di Niccolò IV, primo papa francescano della storia; in questo periodo la città si rinnova sotto il segno di una grandeur cancellata dal tessuto cittadino, ma che ben poco dovette avere da invidiare alla più nota stagione, a cavallo fra Quattro e Cinquecento, di Giulio II e della Roma ‘dominata’ da Michelangelo e Raffaello. Un progressivo climax, tanto splendente quanto breve nella durata, destinato a subire una prima – ma non decisiva – battuta d’arresto con il grande evento che segna il Trecento europeo, lo spostamento della sede papale in Provenza realizzato da Clemente V, incoronato a Lione nel novembre del 1305. In un primo momento, nella Roma orfana del Pontefice la situazione non sembra aggravarsi in modo repentino: come notato dalla curatrice, la «vera crisi» si palesa con maggior vigore nel 1328-29, biennio segnato dalla discesa dell’imperatore Ludovico il Bavaro. Quest’ultimo occupa il Vaticano provocando una frattura grave nello «stato già precario della città pontificia»[3], determinando una lacerazione nella topografia urbana che vede ora Castruccio Castracani occupare il Patriarchio lateranense, i Della Scala e i Visconti «acquartierati nei palazzi» e il già citato Ludovico in Vaticano. Il 12 maggio 1328, giorno dell’Ascensione, in San Pietro viene incoronato l’antipapa Niccolò V.

La situazione di precarietà che sembra investire Roma in questi decenni da sempre è stata letta dalla storiografia tradizionale come il segnale di un progressivo impoverimento della città, ripiegata su se stessa e incapace di esprimere un alto livello culturale. In realtà, già da qualche decennio gli studi hanno cercato nuove prospettive di indagine, ponendo in evidenza la vitalità che caratterizza “l’altra Roma”[4] – la Roma comunale – in questi decenni: i nuovi Statuti del 1363 e la presenza di uomini espressione di un’élite colta e di respiro europeo quali Landolfo Colonna e Francesco Petrarca offrono lo spaccato di una città tutt’altro che paralizzata. Più recentemente, il quadro relativo alle conoscenze della città nel secondo Trecento è andato arricchendosi di un ulteriore fondamentale tassello costituito dal convegno curato dalla stessa Serena Romano e da Walter Angelelli[5].

Se dunque sul piano culturale è stato possibile operare una progressiva riconsiderazione del quadro storiografico tradizionale, la medaglia sembra mostrare il suo rovescio una volta spostato l’oggetto di analisi: lo si vedrà in seguito entrando nel merito dei fatti artistici, ma ad una rapida analisi delle opere censite nel volume emerge chiaramente come la città fra gli anni Trenta e Sessanta del Trecento si presenti contratta e caratterizzata da ‘vuoti’ più o meno ampi. Orfana di commissioni di ampio respiro, domina in questo trentennio un linguaggio «‘a pannelli’, sostanzialmente paratattico»[6], a volte frutto dell’intervento della committenza laica e solitamente di piccolo cabotaggio. Segnali di una reale inversione di tendenza si avranno alla fine del settimo decennio, in quella brevissima stagione rappresentata dal pontificato di Urbano V (1362-70), marcata dal ritorno – pur breve ed effimero – della Curia a Roma (1367-70).

L’ultimo tratto di questo percorso, quello che si apre all’alba del Quattrocento e conduce sino all’elezione di Martino V (1417), si presterebbe ad una lettura equivoca, se non sottoponessimo le fonti ad un opportuno filtraggio esegetico. Nel giro di circa dieci anni, due visitatori giunti da luoghi lontani e per motivi diversi, mostrano una singolare convergenza nel tracciare un ritratto del panorama romano di inizio secolo dai toni poco lusinghieri: nello specifico, si tratta di Adam de Usk e Manuele Crisolora, i quali giungono nell’Urbe rispettivamente nel 1402 e nel 1411. Il primo, canonista gallese costretto a lasciare l’Inghilterra a causa degli attriti con il Re Enrico V, scrive alcuni passi destinati ad avere larghissima fortuna: il cronista evoca l’immagine di Roma come un «deserto invaso da tigri, belve, lupi e vermi» nel quale i cittadini «si uccidono l’un l’altro»[7]; a questo, si aggiunge la testimonianza di Crisolora, il quale lamenta la distruzione generalizzata degli edifici cittadini.

Come scrive Serena Romano, è difficile per lo studioso intuire la reale portata di queste immagini, soprattutto se veicolate da «osservatori contemporanei profondamente impastati di retorica e interessi di parte»[8]. In ogni caso, se giustamente soppesate le loro testimonianze, i due cronisti dovettero comunque fotografare una situazione di progressivo deterioramento del tessuto urbano: in quegli anni pesò realmente sulla città l’assenza di un potere in grado di tenere insieme le diverse “spinte centrifughe” – venuto a mancare anche il Comune, esautorato da Bonifacio IX nel 1398. Questo fatto, insieme al «prevalere dei piccoli interessi individuali», rappresentarono certamente due aspetti che contribuirono a definire l’aspetto della città alle soglie del XV secolo. Rovescio della medaglia è costituito questa volta dal brevissimo pontificato di Innocenzo VII (1404-06), durante il quale la Curia accoglie un gran numero di umanisti, da Pietro Paolo Vergerio a Poggio Bracciolini, ai quali sembrano associarsi gli artisti che, da Brunelleschi a Donatello – parafrasando un’immagine evocativa della studiosa – «vengono a tuffarsi» in quel «gigantesco libro di modelli» quale è la Roma di inizio secolo.

Il ritorno in città di Martino V, al secolo Oddone Colonna, segna un evento spartiacque. Sul piano politico, il pontefice riesce a rinsaldare il suo fragile potere soltanto a seguito della deposizione dell’antipapa Clemente VIII avvenuta nel 1429[9]; sul versante culturale, in quegli stessi anni la Chiesa lancia a Roma una gigantesca operazione di riannodamento dei fili della sua tradizione, che piega e modella al nuovo corso. Una prima occasione verrà offerta a Martino nel 1423, anno di celebrazione del Giubileo straordinario.

Ripercorrere brevemente le vicende storiche che occupano l’arco cronologico preso in considerazione dal volume permette di addentrarci ora con maggior cognizione nell’analisi della cultura figurativa romana, nucleo costitutivo dell’indagine.

Si è già anticipato come, con il pontificato di Niccolò IV, la città vivesse sotto il segno di un «attivismo sfrenato»[10] che si riflette nel gran numero di opere riconducibili a quegli anni, oggi conservate nella misura di circa sessanta esemplari. L’ultimo ventennio del Duecento è un’epoca fra le più cruciali della storia dell’arte italiana: a Roma essa coincide con il momento in cui si affacciano le prime personalità di livello ‘internazionale’ – Torriti, Cavallini e Rusuti – e in cui si innesta – e il volume non manca di dedicarle il dovuto spazio – la cruciale questione assisiate. Insieme col rinnovamento di due tra i maggiori ‘fuochi’ della devozione romana – le basiliche di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore –  la regìa pontificia si legge in filigrana anche nelle imprese di segno francescano che segnano il paesaggio romano sul crinale del  XIII secolo: fra tutte spicca la chiesa di Santa Maria in Aracoeli (scheda n. 9) che riceve una nuova decorazione nella zona absidale (n. 9a) e del cavetto di facciata (n. 9c). Ulteriore fenomeno di cruciale importanza è il mutamento della topografia interna della chiesa capitolina, che nel corso dell’ultimo ventennio del Duecento comincia a punteggiarsi di spazi destinati a cappelle gentilizie, concessi alle famiglie più influenti legate all’Ordine: in stretto dialogo con Assisi, nuclei familiari quali i Savelli prima e i Colonna poi occupano rispettivamente il transetto destro della basilica e gli spazi a esso attigui, dando avvio in questi stessi anni a una serie di campagne decorative delle quali sopravvivono i lacerti nell’attuale cappella Baylon (n. 21), nella cappella un tempo Felici (n. 22) e, appunto, in quella Savelli nel transetto destro (n. 30). Relativi alla genesi di questo processo, normativizzato nel primo Trecento, sono molti i punti ancora oscuri, sebbene si inserisca in quella congiuntura ‘romano-assisiate’ di marca francescana alla quale si è fatto cenno in precedenza.

Dal volume del Corpus emerge chiaramente come la decorazione della chiesa venga di fatto egemonizzata da Pietro Cavallini e dalla sua bottega: del programma originario non rimane pressoché nulla, ma il nome del maestro in relazione alla basilica capitolina fu avanzato già da Vasari, che vide gli affreschi e ne lodò l’altissima qualità. Significativo del legame stretto dal maestro con i francescani è il fatto che il nome di Cavallini ritorni anche in relazione alla decorazione di San Francesco a Ripa, con buona probabilità affrescata dal pittore romano, come testimonia già alla metà del Quattrocento Lorenzo Ghiberti.

Sulla scia di un dibattito che interessa da tempo la figura di Cavallini e i suoi esordi, Valentina Giesser (n. 3) conferma l’attribuzione al pittore della decorazione absidale della chiesa di San Giorgio al Velabro, l’opera più antica tra quelle giunte sino a noi. Responsabile della commissione fu forse Pietro Peregrosso, cardinale titolare nel biennio 1288-89 prima di passare al titolo di San Marco.

Tassello straordinario di questa stagione è l’imponente cantiere di Santa Maria Maggiore (n. 16), basilica che sotto Niccolò IV – e più in là dopo la sua morte – muta radicalmente volto. Sorta di «cappella palatina della famiglia»[11]Colonna, il destino del cantiere si lega indissolubilmente a quello della famiglia, segnato nel 1297 dalla loro cacciata da parte di Bonifacio VIII. La convergenza di interessi fra il pontefice e la potente famiglia baronale, espressa dai due cardinali Giacomo e Pietro Colonna, trasforma la basilica paleocristiana: l’abside viene demolita e ricostruita, e al corpo di fabbrica viene aggiunto un transetto, in modo analogo a quanto contemporaneamente avviene a San Giovanni in Laterano. In questo clima di rinnovamento, anche la facciata fu oggetto di lavori consistenti. Alle trasformazioni architettoniche seguirono i lavori di decorazione che videro impegnati gli altri due ‘protagonisti’ della scena romana contemporanea: Jacopo Torriti nell’abside e Filippo Rusuti in facciata. Al primo va riportato l’inedito frammento musivo con la Vergine odigitria ancora oggi all’esterno dell’abside della basilica (n. 16b). Riscoperto alla fine del 1998 da Arnold Nesselrath – curatore della relativa scheda nel volume – il frammento era sinora noto soltanto da un’incisione pubblicata dal De Angelis nel 1621, il quale poté vedere il mosaico come si presentava prima dei lavori di Carlo Rainaldi (1673). L’attribuzione a Torriti è testimoniata dal possibile confronto del frammento con il volto della Vergine conservato nel catino absidale.

Un lavoro di documentazione meticolosa è stato intrapreso con il cantiere musivo della facciata, firmato da Filippo Rusuti, drasticamente manomesso nel corso dei ‘restauri’ del 1824-30 (n. 16e). Gli studiosi che si sono occupati del mosaico si sono finora divisi fra coloro che considerano il cantiere sostanzialmente unitario e terminato da Rusuti entro il già ricordato 1297 e chi, al contrario, lo ritiene il prodotto di due campagne di lavoro distinte: la prima chiusa nel 1297, e la seconda aperta dopo il triennio 1303-1306, quando Benedetto XI prima e Clemente V poi riabilitano i Colonna cacciati da Bonifacio VIII restituendo loro i beni[12]. Serena Romano propende in modo convincente verso la prima ipotesi, con i mosaici a documentare una vicinanza con la cultura assisiate in uno stadio ancora precedente gli affreschi della cappella di San Nicola[13].

Da segnalare, una recente scoperta che ha contribuito ad ampliare ulteriormente il catalogo di Filippo Rusuti: a seguito dei lavori di pulitura eseguiti nel corso del 2018 sulla c.d. Madonna del Popolo è emersa lungo il margine superiore della cornice la firma [..]ILIPPUS RV[.]VTI PINXIT[14], sinora generalmente ricondotta all’autografia torritiana o alla personalità anonima del ‘Maestro di San Saba’ creata da Toesca. Il legame con la cultura assisiate all’altezza di Cimabue e delle storie testamentarie, rintracciato dalla critica e ribadito anche da Daniela Sgherri (n. 25) pone nuovamente l’accento sulla presenza del pittore romano sui ponteggi assisiati, rendendo possibile datare la tavola nella prima metà degli anni ’90 del Duecento.

Attorno ai tre grandi pittori che cannibalizzarono le committenze di più alta estrazione, il volume non manca di ridefinire il ruolo di quella costellazione di botteghe che proliferarono in una città il cui sfrenato attivismo non si esaurì nella regìa papale e nell’attivismo francescano. Esemplare in tal senso è il caso delle monache benedettine di Sant’Agnese fuori le Mura (n. 14), che sul crinale fra XIII e XIV secolo avviano una serie di lavori di decorazione all’interno del complesso monasteriale: accanto a personalità raffinatissime quali il cosiddetto Maestro del Carnefice (n. 14a) attivo nell’ultimo decennio del Duecento, una bottega cavalliniana realizza agli esordi del XIV secolo una Maiestas recuperata a seguito dei restauri condotti nel 2011 e finora inedita (n. 52). Punto d’arrivo di questa stagione coincide con l’arrivo di Lello de Urbe nel terzo decennio del secolo, per il quale si propone il ruolo di esecutore del ciclo benedettino già nel matroneo e oggi in Pinacoteca Vaticana (n. 71). Al caso di Sant’Agnese possono associarsi quelli del portico della basilica di Onorio III di San Lorenzo fuori le Mura (n. 11), corredato di una firma oggi perduta ma documentata da Antonio Eclissi che indicava quali esecutori i pittori Paulus has et Filippus filius eius, e quello dei cistercensi dell’abbazia delle Tre Fontane (n. 13), impegnati nel corso dell’ultimo ventennio del secolo sotto l’abate senese Martino (1283-1303/06) in un’operazione di massiccio rinnovamento dei loro ambienti conventuali.

Quello che emerge dall’analisi della situazione artistica romana alla fine del XIII secolo è un panorama multiforme caratterizzato da una estrema vitalità, tuttavia destinato ad una prima battuta d’arresto al momento dell’abbandono della città da parte della Curia. Le ragioni storiche cui si è fatto cenno in precedenza sembrano avere un riflesso nei fatti artistici: la partenza della Curia verso la Provenza non sembra sclerotizzare la città, con Clemente V che anche da Oltralpe si preoccupa di nominare Giacomo Colonna, Francesco Napoleone Orsini, Giovanni Boccamazza e il vicario Isnardo responsabili dei lavori di restauro della basilica del Laterano colpita da un incendio nel 1308. Almeno sino alla fine del terzo decennio del secolo Roma conosce ancora imprese di un certo respiro, tra cui quella della navata e dell’abside di San Sisto Vecchio dovuta al consistente lascito del cardinale Giovanni Boccamazza († 1309) ed eseguita probabilmente entro il 1314 (n. 34). Un ciclo ampio, vicino ormai al linguaggio cavalliniano di risalita da Napoli – città nella quale il pittore è documentato nel biennio 1308-09 – ma che comunque rivela la sua natura romana se si confronta la Vergine annunciata negli affreschi dell’antica abside con esemplari quali il pannello staccato e oggi sul mercato già in Santa Maria in Cappella (n. 49) e la tavola del “Maestro della Madonna Altieri” (n. 43).

In questo contesto cade il soggiorno romano di Giotto (precedente il gennaio 1313), legato a doppio filo con il cardinale Jacopo Stefaneschi, figlio di Pietro e Perna Orsini, imparentato con Giovanni Gaetano Orsini (papa Niccolò III) e vicino a Bonifacio VIII. Una catena di testimonianze, a partire dal Liber anniversariorum della Basilica Vaticana (1362 ca.) riconosce nel cardinale il fautore della venuta a Roma del maestro fiorentino, al quale vengono ricondotte le imprese vaticane della Navicella (n. 53), del polittico opistrografo destinato al sacrosanctum altare della basilica oggi conservato in Pinacoteca[15] (n. 61), e la decorazione dell’emiciclo absidale (n. 62). La ricognizione delle opere censite nel Corpuspermette ancor più di comprendere gli esiti qualitativamente altissimi del soggiorno giottesco, irrimediabilmente ‘chiuso’ però fra le mura della Civitas Leonina. I pittori romani rimangono sostanzialmente sordi alle sollecitazioni giottesche e impermeabili al suo linguaggio, benché questo giudizio si scontri con le grandi lacune che il tessuto pittorico conservato patisce.

Nel volume, il celeberrimo mosaico della Navicella – oggi frutto del rifacimento seicentesco del Manenti – viene inserito dalla Romano nel contesto della discesa in città di Enrico VII di Lussemburgo, del quale sarebbe spia l’inserzione nella scena di un elemento specifico della topografia romana, la torre delle Milizie[16]. Il complesso fortificato non è nuovo nell’iconografia pontificia, e già Cimabue lo aveva inserito nella sua Ytalia quale elemento connotato di un alto valore simbolico, ma all’inizio del Trecento le sue vicende si legano ai Caetani e, appunto, a Enrico VII. Nel 1301 la torre viene infatti acquisita da Pietro Caetani, strappata agli Annibaldi che ne detenevano la proprietà. La morte di papa Bonifacio VIII nel 1303 dovette comunque comportare un allentamento del controllo Caetani sul complesso, che già nel 1311 risultava custodito dai senatori di Roma, e in particolare da Ludovico di Savoia, seguace di Enrico VII. La discesa di quest’ultimo in città nel 1312 comportò l’occupazione imperiale del complesso, abitato da Enrico a partire dal 23 maggio dello stesso anno, prima di riconoscerne il diritto di proprietà ai Caetani nell’agosto dello stesso anno. Nella genesi del programma iconografico, teso a orchestrare «il rischio estremo corso dalla cristianità per colpa di Arrigo»[17], l’inserimento della Torre delle Milizie si connoterebbe dunque nel mosaico giottesco di un’accezione positiva, di sponda sicura, libera dall’occupazione imperiale e dunque simbolo del ritorno all’ordine.

Chiude la parentesi del soggiorno di Giotto a Roma il lacerto ad affresco con due apostoli (o santi) provenienti dall’emiciclo absidale della basilica vaticana. L’unico studio di questo brano pittorico oggi in collezione privata fu quello di Vincenzo Martinelli, il quale poté vederlo in occasione del convegno Giotto e il suo tempo, tenuto nel 1967[18]. Riproposto agli studiosi e al pubblico in occasione della mostra “Giotto e l’Italia” organizzata a Milano nel 2015[19], il lacerto ha ricevuto un intervento di pulitura nel biennio 2016-17, di cui la scheda contenuta nel volume dà conto in una fondamentale nota relative al restauro redatta da Alberto Felici dell’Opificio delle Pietre Dure.

Nel corso del terzo decennio del XIV secolo, una delle ultime imprese di respiro monumentale fra quelle rintracciabili nell’Urbe è costituita dal cantiere della facciata di San Paolo fuori le Mura (n. 73), i cui mosaici sono stati staccati nel 1838 e ricollocati all’interno della basilica sull’arco trionfale. La scheda redatta da Daniela Sgherri pone l’accento sulla «strategia autocelebrativa di Giovanni XXII»[20] e avanza il nome di Lello de Urbe quale principale esecutore sulla base dei confronti con il mosaico della cappella di Santa Maria del Principio a Santa Restituta a Napoli (1313). L’attività di questo pittore, un divulgatore del linguaggio cavalliniano, viene riassunta nel volume nei suoi passaggi napoletani e laziali: a Roma, oltre al già citato mosaico di San Paolo, la sua mano sembra potersi rintracciare in altri tre episodi quali la c.d. Madonna della Strada nella chiesa del Gesù (n. 70), gli undici pannelli del ciclo benedettino già in Sant’Agnese fuori le Mura (n. 71) e le due tavole con sant’Antonio da Padova e Ludovico da Tolosa in San Francesco a Ripa (n. 72), già poste in relazione col pittore da Leone de Castris[21].

Come sintetizzato nel saggio introduttivo del volume e brevemente riportato in questa sede, sotto il profilo della produzione pittorica il trentennio 1330-60 si presenta con una fisionomia contratta. Diminuiscono le opere conservate, la loro qualità si fa in generale più modesta, il linguaggio ‘a pannelli’ uniforma le commissioni sottolineandone la natura episodica. Anche nel caso di cantieri che lasciano trasparire in filigrana una logica ordinatrice come quello della navata destra nella chiesa dei Santi Quattro Coronati (n. 78), il racconto si ‘cristallizza’ in una serie paratattica di riquadri iconici.

Venute meno le grandi commissioni legate all’alto cardinalato o al diretto intervento papale, dal quarto decennio del Trecento compaiono nuovi protagonisti sulla scena. Tra questi, guadagna progressivamente un notevole peso nel tessuto cittadino la Societas dei Raccomandati, confraternita laica responsabile della custodia dell’icona di Cristo conservata nell’oratorio di San Lorenzo in Palatio ad Sancta Sanctorum. Menzionata per la prima volta nel 1318, la Societas mira ad inserirsi nel tessuto della festività di maggior richiamo della Roma medievale, quella dell’Assunta celebrata la notte tra il 14 e il 15 agosto con una lunga processione che dal Laterano conduceva l’Acheropita fino a Santa Maria Maggiore, sostituendosi progressivamente agli ostiari i quali, sin dall’Alto Medioevo, avevano assolto la funzione di custodia della più importante icona conservata a Roma[22]. A partire dal 1333, la Confraternita fonda un primo Ospedale, quello di Sant’Angelo[23], nosocomio e ospizio destinato a offrire assistenza e cure ai bisognosi nel bacino meridionale della città. La presenza dell’ospedale nell’area del Laterano modellò progressivamente lo spazio urbano circostante, come dimostrano gli interventi di riqualificazione dell’asse della via Maior, di cui la Confraternita possedeva i terreni. Del complesso ospedaliero sopravvive in situ un brano di pittura murale con una Vergine in trono e due santi (n. 104), corredata di stemmi non riconoscibili e datato da Walter Angelelli nel primo ventennio del XV secolo.

L’importanza dell’istituzione e il numero degli assistiti crebbe rapidamente nel corso di un trentennio, al punto da rendere necessario la fondazione di un nuovo ospedale, quello di San Giacomo, situato ad est del Colosseo al termine dell’attuale via di San Giovanni in Laterano. Ricordata come «hospitalis s. Jacobi» nel 1369, la struttura godette di particolare fortuna fra Tre e Quattrocento, prima di esser riconvertita ad uso di granaio agli inizi del Cinquecento. Demolito nel 1816, del complesso non rimane nulla, e la documentazione disponibile contribuisce solo in parte a colmare la lacuna causata dalla distruzione degli apparati decorativi. Delle pitture murali un tempo in San Giacomo scrive nel volume Philine Helas (n. 87), recentemente tornata sull’argomento[24].

Il ‘vuoto’ incide anche sulla valutazione della brevissima stagione del tribunato di Cola di Rienzo (1347-1354) che, anche in campo artistico, dovette costituire un momento di vitalità prima della parentesi di Urbano V sul crinale del settimo decennio. Delle iniziative riconducibili al tribuno parla la Cronica dell’Anonimo Romano, che descrive tre opere connotate in senso marcatamente apocalittico: la prima, destinata al Campidoglio, davanti al grande mercato del pesce del sabato; la seconda a Sant’Angelo in Pescheria, altra sede del mercato e titolo cardinalizio del suo sodale Giovanni Colonna; la terza, alla chiesa della Maddalena. Come nota la curatrice, le immagini di Cola «erano opere ‘pubbliche’ – quindi già una novità – intese ad un rapido scopo comunicativo”[25] e rappresentano il veicolo di diffusione di quel linguaggio comunale largamente diffuso al di fuori di Roma, specialmente in terra toscana.

Un momento di felice congiuntura è rappresentato dalla breve parentesi del pontificato di Urbano V, momento nel quale all’interno delle mura della Civitas Leonina si crea un melting pot di culture diverse, tenute assieme dalla regia di marca avignonese. All’interno dei Palazzi Vaticani lavorano l’architetto Gaucelin de Pradalhe e i pittori Matteo Giovannetti, Giovanni da Milano, Giovanni e Agnolo Gaddi e Bartolomeo Bulgarini, una «compagnia assolutamente inedita di grandi artisti»[26] di cui nulla oggi è rimasto.

Sul crinale del XIV secolo le monache domenicane di San Sisto Vecchio sono fra le prime a commissionare un ciclo narrativo all’interno degli spazi della loro chiesa (n. 90). Gli affreschi ‘tardogotici’ della navata, qui per la prima volta fotografati con nuove tecniche di ripresa, raffigurano tre storie relative alla vita di Santa Caterina da Siena, morta proprio a Roma nel 1380: in stretta vicinanza con le pitture fatte eseguire a completamento della sepoltura di Caterina alla Minerva nel 1383, Beatrice Cirulli propone per le pitture una datazione successiva alla morte di Eustachio († ante-1385), esponente della famiglia dei Sant’Eustachio cui rimanda lo stemma visibile in un anglo dell’affresco. Accanto all’intervento domenicano, altro caso che va nella stessa direzione appena riconosciuto è rappresentata dall’impresa promossa dagli olivetani di Santa Maria Nova (n. 93): questi, agli albori del Quattrocento, danno avvio alla decorazione del chiostro, i cui frammenti sono oggi localizzati sulla parete della corsia occidentale e all’attacco dei due bracci a essa tangenti. Sinora inedita, la decorazione consiste in un monocromo – tecnica di per sé rara in città – e dovette verosimilmente comprendere un programma agiografico, forse relativo alle vicende di San Benedetto.

Lo studio dei circa quindici anni che separano il breve pontificato di Innocenzo VII (1404-06) dal rientro a Roma di Martino V si pone come uno dei contributi più spiccatamente pionieristici presenti nel volume. Un panorama composto di «schegge», alcune di esse collegate lungo una direttrice nord/nord-est che include Viterbo, Tuscania, Orvieto, Arezzo e Siena, altre a prima vista ‘isolate’ come quella abruzzese coagulata attorno alla basilica di San Clemente (n. 111a) nella quale Mellini ricordava in controfacciata la data 1416 e la firma di un non identificato Salli da Celano. A queste si aggiungono i brani culturalmente dipendenti dal meridione, tra le quali ricoprono un ruolo le opere in rapporto più o meno diretto con l’Oratorio dell’Annunziata di Cori (LT), una piccola enclave di committenza spagnola in linea con quanto, nello stesso giro di anni, accade a Subiaco con la decorazione della cappella degli Angeli commissionata da Lluis de Prades[27].

Le personalità di maggior spicco che emergono in questi decenni sono quelle di Taddeo di Bartolo al quale – come  già proposto in precedenza da Serena Romano[28] – è possibile attribuire il tabernacolo di Santa Maria in Trastevere commissionato da Rinaldo Brancaccio, Giovenale da Orvieto e l’anonimo “Maestro di Velletri”. Il recupero della personalità artistica di Giovenale da Orvieto, operato da Matteo Mazzalupi, si può considerare una delle acquisizioni più importanti raggiunte dal volume: documentato tra Orvieto e Roma, punto di partenza fondamentale per la ricostruzione della fisionomia del pittore è stato il suo riconoscimento nelle tre tavole che un tempo costituivano la predella del trittico, datato 1441, già nella cappella di San Giacomo all’Aracoeli. Identificate da Rosa Vazquez Santos[29] nel 2008, le opere sono oggi divise fra il Museo “Amedeo Lia” di La Spezia, il Museo Diocesano di Camerino e una collezione privata a Pau, località nei Pirenei francesi. Variamente attribuite a Giovanni Boccati, Jacobello del Fiore e Antonio Alberti da Ferrara[30], le tavole hanno aperto la strada all’ampliamento del catalogo di Giovenale, arricchitosi progressivamente dei dipinti murali nell’abside della chiesa di San Leone a Capena e di quelli della navatella destra di San Clemente (n. 111c) perduti ma documentati da un prezioso disegno redatto probabilmente da Carlo Francesco Fontana al tempo dei lavori nella basilica promossi da papa Clemente XI (1715). All’attività di pittore si sarebbe associata quella di miniatore: come proposto da Matteo Mazzalupi, Giovenale sarebbe il responsabile della miniatura che apre il catasto del 1435 della Societas dei Raccomandati[31].

Ulteriore tassello utile a ricostruire la personalità di Giovenale, Beatrice Cirulli propone di identificare, viste le tangenze con gli affreschi absidali di Capena, in Giovenale il responsabile delle pitture nell’attuale Casina del Bessarione (n. 109), che se confermata testimonierebbe l’attività romana del pittore nel corso del secondo decennio del Quattrocento, in un momento precedente il suo documentato ritorno a Orvieto nel 1425.

Legato al trittico perduto ma documentato fino al 1907 all’interno del monastero di Tor de’ Specchi (n. 106), è il ‘Maestro di Velletri’, personalità ricostruita da Boskovits[32] intorno alla grande tavola con la Madonna e il Bambino nella cattedrale di Velletri e che proprio in questo volume ha ricevuto un sensibile accrescimento del suo catalogo. Oltre al già citato trittico, riprodotto nell’unica fotografia d’epoca disponibile, sono stati riconosciuti al maestro le pitture murali – anch’esse non più visibili dal 1990 – nella cappella della Madonna del Buonconsiglio (n. 107) e la tavola con la Madonna e il Bambino oggi conservata in Palazzo Venezia (n. 113), tavola che segna forse il punto estremo della sua attività, probabilmente già all’interno del terzo decennio del secolo.

Con il rientro a Roma di Martino V, si riaprono in città cantieri di respiro monumentale: degna conclusione di un cerchio, di nuovo i due ‘fuochi’ oggetto delle attenzioni di papa Colonna sono le basiliche di Santa Maria Maggiore e di San Giovanni in Laterano, segnale di una continuità mai recisa con la propria tradizione già osservata con Niccolò IV alla fine del XIII secolo.

Di quella che doveva essere forse l’impresa pittorica maggiore dell’epoca, la decorazione della navata maggiore di San Giovanni in Laterano affidata a Gentile da Fabriano, non rimangono che tre minuti lacerti dislocati oggi fra il Vaticano e il Chiostro Lateranense, ai quali si aggiunge un fregio fitomorfo ancora in situ, indagati nel volume da Andrea de Marchi (n. 118). Utile a fornire un’idea del ciclo è un disegno eseguito da un collaboratore di Francesco Borromini prima della distruzione delle opere, sacrificate al rinnovamento della basilica operato in occasione del Giubileo del 1650. La testimonianza grafica permette di apprezzare alcuni degli spunti del pittore marchigiano, che inserisce nella decorazione basilicale romana un finto apparato tricuspidato all’altezza del cleristorio, sorta di traduzione ad affresco di quelle macchine d’altare che Gentile realizzò sin dall’esemplare di Valleromita (post 1405)[33]. Un ciclo dunque esemplificativo del nuovo corso, lasciato però incompiuto dal maestro che in Laterano riuscì a lavorare soltanto dal 28 febbraio alla metà di agosto del 1427, sostituito poi da Pisanello dopo il 1428.

L’attività di Gentile a Roma non si esaurì soltanto con gli affreschi lateranensi: tra 1426 e 1427 possono essere datati la Madonna con Bambino oggi nel Museo Diocesano di Velletri, ma documentata da Bonaventura Theuli (1644) nella chiesa romana dei SS. Cosma e Damiano (n. 116) e il Crocifisso oggi nella cappella dei Conversi di San Paolo fuori le Mura (n. 117).

A chiudere l’arco cronologico d’indagine del libro è Masolino, che fa la sua comparsa a Roma intorno al 1428. Chiamato per accompagnare o forse sostituire Masaccio, nel frattempo deceduto, il pittore eseguì il Trittico della Neve destinato alla basilica di Santa Maria Maggiore (n. 123) dove Vasari lo vide nel Cinquecento mentre oggi esso è disperso tra vari musei, al quale seguì l’attività nella cappella Branda Castiglione in San Clemente (n. 124) e nella ‘Sala Theatri’ di Palazzo Orsini a Montegiordano, perduto probabilmente già dal 1482 a causa dell’incendio appiccato al palazzo dai Colonna (n. 125). Un nutrito gruppo di opere ricostruito e indagato da Ilaria Molteni che – al limite dell’arco cronologico preso in considerazione nel volume – offre uno spaccato dell’attività del pittore nativo di Panicale, ultimo esponente di una ricchissima stagione tardogotica romana in corso di riscoperta e destinata ad esser spazzata via dal nuovo corso della pittura italiana, sancito dall’ingresso a Roma di Piero della Francesca nel biennio 1458-59.

 

 

 

 

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[1] Sono stati finora pubblicati i volumi I, IV e V del Corpus e il solo volume I dell’Atlante. Sono in attesa di pubblicazione i voll. II e III della serie del Corpus, e i voll. II e III dell’Atlante.

[2] Infessura 1890, pp. 22-23.

[3] p. 21.

[4] Cito il volume di Jean-Claude Maire Vigueur, cfr. Maire Vigueur 2011.

[5] Angelelli, Romano 2019.

[6] p. 22.

[7] p. 24.

[8] Ibid.

[9] Pinelli 2001, V-XL.

[10] p. 15.

[11] p. 116.

[12] La seconda ipotesi è stata rilanciata di recente da Tomei, cfr. Tomei 2018, p. 25.

[13] Sulla cappella di San Nicola, vd. Romano 2010, pp. 584-596.

[14] Caldi, Jahier 2018, pp. 49-57.

[15] Segnalo un contributo della studiosa sul polittico Stefaneschi, vd. Romano 2017, pp. 269-76.

[16] L’inserimento della Torre delle Milizie in una figurazione giottesca non sarebbe un unicum. Riconosciuta già da Previtali nell’edificio che campeggia nel Banchetto di Erode della Cappella Peruzzi, di recente Serena Romano ha ipotizzato un legame fra le imprese della Navicella vaticana e del ciclo Peruzzi all’interno della basilica fiorentina di Santa Croce. Cfr. Romano 2019, pp. 5-15.

[17] Romano 2019b, p. 13.

[18] Martinelli 1971, pp. 383-399.

[19] De Marchi, Romano 2015, pp. 132-139.

[20] p. 313.

[21] Leone de Castris 2013, p. 161.

[22] La sostituzione dei membri della Confraternita agli ostiari fu un processo di lunga durata: nel 1422 Martino V stabilisce la collaborazione fra ostiari e i guardiani della confraternita nella protezione dell’icona mentre, nel 1475, Sisto IV stabilisce il definitivo accorpamento degli ostiari nei ranghi della Confraternita.

[23] Sull’Ospedale dell’Angelo vd. Helas, Tosini 2017.

[24] Helas 2019, 243-264.

[25] p. 22.

[26] p. 23.

[27] Sulla cappella degli Angeli vd. Bevilacqua 2008, II, pp.213-226.

[28] Romano 2009, pp. 15-19.

[29] Vazquez Santos 2008, pp. 105-113.

[30] L’attribuzione ad Antonio Alberti figura in Ratti, Acordon, Zeri, G. De Marchi 1997, III, pp. 25-26.

[31] Mazzalupi 2019, 227-242.

[32] Boskovits 1991, pp. 453-454.

[33] Per la ricostruzione delle vicende relative al polittico di Valleromita, vd. De Marchi 1992, pp. 47-95.