Erwin Panofsky: la formazione e gli anni giovanili

Le miniere del sale della scienza delle immagini

di Paolo Sanvito

 

La biografia di Erwin Panofsky tra i 10 e i 30 anni e le sue radici ebraiche, di Gerda Panofsky (Erwin Panofsky von Zehn bis Dreißig und seine jüdischen Wurzeln, Passau, Dietmar Klinger Verlag, 2017. ISBN 9783863281502).

Questa stupefacente – per quantità infinita di materiali archivistici e documentari – biografia giovanile di Panofsky mette molto bene in luce quanto la letteratura e la filosofia, che nella concezione umanistica entrambe litterae sono, siano state – nel caso del grande storico dell’arte tedesco come in altri – il ‘sale’ della scienza delle immagini da lui essenzialmente promossa.

Con un processo lento e lungo di confronto e assimilazione dei dibattiti soprattutto ‘scientifici’ (parola centrale nei suoi scritti) e filosofici contemporanei, Panofsky ha meticolosamente, appunto come uno scienziato, costruito il proprio metodo. Esso si è formato a strati e in fasi molto complesse: nessun colpo di genio inatteso e precipitoso, nessun appello all’ispirazione. Il curriculum di Panofsky può esser così visto come la prova viva dell’indispensabilità del nutrimento che alla storia dell’arte deriva dalla/e facoltà e, particolarmente, dai dipartimenti di filosofia, così all’avanguardia nei suoi anni in Europa centrale, oltre che dalle scienze filologiche classiche nelle quali già allora notoriamente la Germania deteneva il primato globale, tra Breslavia, Gottinga e Tubinga. 

La formazione classica viene d’altronde personalmente ritenuta da Panofsky come sua propria linfa in una lettera da lui stesso indirizzata al ministro tedesco della cultura in anni postbellici; ma quando pure sorgesse il dubbio che si trattasse di una sua convinzione personale, in realtà una stessa idea era sostenuta dalle stesse istituzioni di stato tedesche, come dimostrano diverse altre lettere del carteggio di Panofsky con i ministeri, nonché i curricula dei ginnasi frequentati da lui e tanti altri storici dell’arte di questa generazione.

Ci si chiede dopo alcune pagine se, nella sua condizione di ebreo di origine slesiana, proveniente cioè da una regione aperta alle più diverse culture mitteleuropee – una regione, la Slesia, che si trova a metà tra Vienna, Praga e Berlino e che per di più era stata per lungo tempo parte integrante del regno di Boemia –, Panofsky non abbia risentito delle prime mosse della psicologia, che d’altronde attraverso il maestro Georg Simmel erano già approdate al suo ambiente dove godevano di alta considerazione (come già si ricava dalle pagine della sua stessa Habilitation; cfr. pp. 102 e 114): il concetto di Gestalt[ung] infatti è molto presto in auge all’inizio del secolo presso l’università berlinese; esso è alla base di quel mai pubblicato studio, intitolato Gestaltungsprinzipien Michelangelos, ma deve essere stato oggetto di discussione nell’ambito dei corsi di filosofia greca, presso Simmel, e di “psicologia generale”, presso Dessoir, nel semestre d’inverno 1912-1913. Non è chiaro, però, se non sia già la pubblicazione dello psicologo, anche lui berlinese, Wolfgang Köhler sui principi della Gestaltpsychologie, già nel 1920, ad avere il ruolo principale: bisognerebbe confrontare a fondo quest’ultimo testo (che reca il titolo Die physischen Gestalten in Ruhe und stationärem Zustand) con l’altro.

D’altronde gli studi sulla percezione, quasi più che quelli storico-artistici, accompagnarono Panofsky ancora molto a lungo nel periodo cruciale e formativo postdottorale, come dimostra almeno il titolo del capitolo sullo ‘zibaldone’ (Hoppelpoppel) per uno schizzo di Metapsicologia generale dell’arte (cui è dedicato il fin troppo sommario, data la rilevanza del tema, Cap. V). Qui sarebbe stata necessaria un’analisi più approfondita (la trattazione si ferma, da p. 168 a p. 171, a discutere solo sul significato e l’uso di questa rara parola; ma a p. 172 il capitolo si conclude già): anche perché va considerato come la psicologia dell’arte sia stata tra i moventi principali del lavoro, all’epoca ancora inconcluso, di Warburg, che a sua volta come Panofsky ci ha lasciato ampi appunti di uno studio mai pubblicato e dunque frammentario (i suoi Frammenti per la fondazione di una psicologia monistica dell’arte). Nel caso di Warburg la perdita è stata, per quanto dolorosa, prevedibile, essendo stato l’autore presto internato a Kreuzlingen, a guerra appena finita. A questo argomento è stata dedicata solo una tesi di Magister francofortese, nel 1990, da parte Claudia Maria Cerbe: di più, quindi, non si sa.

La funzione egemonica di Berlino come fucina innovativa, anche oltre le istituzioni ufficiali, risalta a tutto tondo nel curriculum, in quanto tornio fittile del trasferimento non solo di conoscenze, ma di vere e proprie culture da est a ovest (o viceversa: pogrom occidentali per esempio in Renania spesso cacciarono gli Ebrei verso la Polonia), per la sua posizione fortunata al confine di territori di cultura ebraica, cattolica, protestante e perfino greco-ortodossa.

Giusta luce si getta sull’episodio centrale che ha determinato (in un memorabile articolo del 1915 apparso sulla prestigiosa Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft) il rifiuto del metodo wölffliniano da parte di Panofsy; e tuttavia, se non bastasse, la fronda era ampiamente nell’aria e si percepisce anche dopo, in ambito austro-ungarico, con Arnold Hauser (nella celebre, e certamente non iconologica, Storia sociale, 1951; l’autore emigrò in Inghilterra solo nel 1938).

Abbiamo così definitivamente conferma che Panofsky sia stato il moderno antiwölfflin, direttamente ispirato dalla filosofia (specificamente l’Ethik) di Spinoza: «die Seele», l’anima, percepisce il mondo, diversamente da quanto sempre sottolineato e accentuato da Wölfflin che aveva basato il proprio metodo di indagine sull’osservazione di qualità puramente formali ed esteriori che particolarmente ed esclusivamente l’organo della vista può percepire. La configurazione psicologica di una personalità artistica era e resta sempre uno dei principali interessi nella ricerca di Panofsky, come è stato sottolineato dettagliatamente da Herding nel 1994; si vedano le pp. 145-170). La Germania, pur avendolo esiliato, ha ben fatto fruttare questo seme, fino agli anni recenti del Kolleg Psychische Energien der bildenden Kunst di Francoforte.

Un ulteriore merito del testo è, attraverso la lente della formazione di Panofsky, l’inquadramento di un episodio luminoso della storia dell’arte europea al confine tra Francia e Germania: il magistero ancora non a sufficienza rivalutato di Wilhelm Vöge (Brema 1868-Ballenstedt 1952; Vöge decise di emigrare all’est, nonostante fosse bremese). Questi, sfortunatamente emerito già a 48 anni e quindi ordinario di breve carriera, lasciò tuttavia tracce indelebili negli studi moderni della storia dell’architettura, che tanta parte egemonica ha avuto, secondo i parametri della storia dell’arte mitteleuropea (ma non, invece, in quella italiana, se si prescinde da pochi momenti isolati come la carriera di Argan). Vöge riuscì a unificare organicamente, in modo lungimirante e sensibile, lo studio del Medioevo tedesco e di quello francese, come era necessario da tempo; anche perché era attivo con la sua cattedra esattamente nella macroregione di mediazione culturale, la Svevia, centro della sperimentazione artistica tedesca sotto influsso della Francia nel periodo gotico classico, tra l’altro, anche della grande dinastia sveva (e già da prima, come frattanto è venuto in luce). Vöge divenne ‘per necessità’ il Doktorvater di Panofsky quasi per un malinteso, un disaccordo di questi con Goldschmidt a Berlino nel 1914. Ma Friburgo, in quanto glorioso centro di studi sin dalla sua fondazione primo-rinascimentale, era anche un centro della ricerca sull’età moderna grazie ad un secondo giovane maestro, Walter Friedländer, che lasciò in eredità a Panofsky, per inciso, non pochi interessi. Essendo la Germania la nazione precipua della «transizione soffice» da Tardogotico, stile e architettura delle corti, ad un’altra arte internazionale, il Barocco, sembra che Friburgo offrisse involontariamente già allora, per così dire in miniatura, la quintessenza dello studio artistico della nazione, pur con i suoi mezzi ben meno generosi di quelli offerti da una Berlino o una Monaco. Inoltre era da sempre un centro della ricerca filosofica, già prima di Heidegger.

Salvo che per le numerose comuni feste, o sedute di Kaffee und Kuchen, non si rende ragione in questo libro del ruolo del distintissimo Kurt Badt, Dr. Phil. di stessa alma mater, nonché compagno di studi friburghese di Panofsky. I necrologi a lui dedicati apparvero in due continenti.

Qui ci piacerebbe sapere di più sul rapporto con il comune magister (E.P.) Vöge, piuttosto che leggere l’elenco puntiglioso e interminabile delle ore di lezione compresa la sua somma calcolata fino alla frazione di ora; abbiamo le citazioni testuali dalle lettere private di Panofsky stesso su cosa pensasse di Vöge, frasi lapidarie e sommarie: ma dicono veramente il necessario o non sottacciono forse proprio l’essenziale ? Di certo c’è sempre del fascino nell’aneddoto in sé e per sé, ma quest’ultimo dovrebbe non sfociare nell’approccio agiografico, in cui ogni dettaglio e bottone raccolto diventa oggetto di culto. Non può essere un caso che un allievo meritevole, soprattutto un immatricolato di Berlino faccia i bagagli per andare dal nord a studiare a Friburgo, in una piccola città al confine svizzero: i motivi restano ignoti essenzialmente, così come quanto il rapporto allievo-maestro abbia fruttato ad entrambi, come spesso accade. Forse qualcosa si nasconde nell’Archivio Vöge. Da Friburgo passeranno di lì a poco il transfuga polacco Grodecki (pre- e postbellico) e Sauerländer, per nominare solo due personaggi che hanno costruito la storia culturale del continente (non di Friburgo). Panofsky non vi si sentiva solo; anche perché altri prussiani, sassoni ed ebrei decisero di scegliere la “piccola” università. A questo riguardo, resta ancora da fare chiarezza sul percorso da seguire, e tentare infine delle interpretazioni complesse. Il ‘Kulturimperialismus’ guglielmino o peggio nazionalsocialista o fascista, di cui l’autrice, sulla scorta di un maldestro e prevenuto interprete delle ricerche michelangiolesche di questo periodo, accusa spesso l’ambiente ricettivo di Panofsky e comunque a lui contemporaneo in Germania, non è una cartina di tornasole efficace in automatico; può essere a volte anche una lente deformante. Infatti, non si spiega come un cattedratico del calibro di Vöge abbia saputo accordargli tanto sostegno, sulla scorta dell’affinità intellettuale; a tutto dispetto della diversità di confessione, socializzazione e origine familiare che l’uno e l’altro dimostrano nel proprio passato. Tanto rumore di sfondo, le origini di ceto e censo, appartenenza confessionale, orientamento politico e la pratica religiosa nel confronto tra giudaismo e cristianesimo invece di restituirci l’ordine storico del discorso, colorano ideologicamente fenomeni che in sé, come il lavoro nella panofskyana ‘Torre eburnea’, ebbero luogo senza antagonismi e prese di posizione preconcette e ideologiche, ma solo allo scopo della buona conduzione degli studi.

Il libro compare quasi contemporaneamente a quello di Karen Michels, nota collega dell’università di Amburgo: Sokrates in Pöseldorf : Erwin Panofskys Hamburger Jahre – Göttingen : Wallstein Verlag, [2017], la cui lettura potrebbe illuminare alcuni blind spots lasciati da Gerda Panofsky. Ma di quest’ultimo si parlerà in altra occasione.