Raffello Correggio Caravaggio. Un bilancio

Raffaello, Correggio, Caravaggio. Bilancio di una mostra sperimentale

Carmelo Occhipinti

 

A pochi giorni dalla chiusura della mostra sperimentale che il MIUR ha voluto generosamente finanziarci – Raffaello Correggio Caravaggio: un’esperienza tattile. Sulle orme di Scannelli (Zagarolo, Palazzo Rospigliosi, 19 nvembre – 18 dicembre 2016) –, l’apertura di questo nuovo canale telematico di recensioni mi porge l’occasione di tentare un primo bilancio dei lavori svolti.

‘Storia’ dell’arte e arte ‘contemporanea’

Come ho già dichiarato nel saggio introduttivo al catalogo, questa mostra di ‘quadri tattili’ voleva abbracciare, al tempo008-copertinaocchipinti2016a-2-copia stesso, ‘storia’ dell’arte e arte ‘contemporanea’. E rispondere così a un’esigenza che al giorno d’oggi comincia a essere particolarmente sentita: quella di riconciliare il presente col passato, il contemporaneo con la storia, dopo un secolo intero di ‘conflitti’, dalle Avanguardie fino ai giorni nostri.

In forza della moderna tecnologia utilizzata per realizzarle, ciascuna delle installazioni esposte in mostra proponeva infatti una rivisitazione del tutto inconsueta di quattro capolavori della storia pittorica italiana – Raffaello, Correggio, Caravaggio –, la cui scelta intendeva altresì suggerire una riflessione circa la possibilità di riconciliare, nientemeno, Caravaggio rispetto alla tradizione pittorica cinquecentesca verso la quale il maestro lombardo aveva necessariamente guardato.

Così, tenendo conto dell’esigenza attuale di appacificare presente e passato, ho pensato che bisognasse risalire a un’immagine di Caravaggio diversa da quella che il XX secolo ci aveva consegnato: che era  l’immagine di un maestro ‘rivoluzionario’ la cui grandezza si riconosceva, appunto, nella forza dirompente con cui egli si era polemicamente contrapposto al passato per proiettarsi così verso il futuro, tanto da anticipare Courbet, Manet e Cézanne. Ebbene, una siffatta interpretazione della grandezza di Caravaggio appartiene tutta alla cultura del XX secolo che l’ha prodotta: essa non risponde più alla nostra attuale sensibilità e, anzi, rischia di apparirci ormai del tutto obsoleta. Oggi, credo, preferiamo motivare la grandezza di Caravaggio rispetto alla sua capacità straordinaria di guardare al passato, cioè all’arte classica per arrivare quindi a misurarsi con i grandi maestri del Cinquecento, da Leonardo a Raffaello, a Michelangelo, a Tiziano.

Ho creduto, insomma, di risalire alla testimonianza di uno scrittore d’arte seicentesco, Francesco Scannelli il quale, lavorando a Modena presso la corte degli Estensi, aveva tentato di spiegare il naturalismo caravaggesco rintracciandone talune possibili anticipazioni, diciamo così, nella tradizione pittorica cinquecentesca, fino a ritrovare in Raffaello, Correggio, Tiziano le radici del portentoso linguaggio del Merisi. La testimonianza di Scannelli è stata in questo senso talmente importante da indurci a indicare il suo nome fino nel titolo della mostra di Zagarolo: perciò le opere che abbiamo scelto di riprodurre nel formato del quadro tattile erano tra quelle viste e più ampiamente discusse da parte dello stesso Scannelli sulle pagine del suo trattato di storia pittorica, a seguito del viaggio romano da lui compiuto nel 1654[1].

 

Un mito moderno: il pittore ‘rivoluzionario’ nella letteratura artistica tra Otto e Novecento.

01748f215ee82374a7d94ffd5e23deab11aFinora molto poco considerato dagli studiosi di storia artistica, Scannelli aveva pubblicato nel 1657 un ampio testo di storiografia artistica dal titolo Microcosmo della pittura, dedicato al duca di Modena Francesco I d’Este. Ora, per spiegare le ragioni di tanto nostro interesse su questo trattato dalla scrittura difficilmente digeribile (nonché, per quanto sono lunghi certi suoi periodi, nemica dei polmoni!), credo che sia utile rivolgere un po’ di attenzione verso la vicenda novecentesca della fortuna di Caravaggio.

Torniamo indietro, dunque, all’incirca di cento anni. Accadeva allora, nel pieno clima delle Avanguardie storiche, che il giovanissimo Roberto Longhi lanciasse un’immagine di Caravaggio che bene rispondeva alla sensibilità dell’epoca a lui contemporanea, quando i Futuristi italiani dichiararono guerra al passato, alla storia, alla tradizione, alle biblioteche, ai musei. Il Caravaggio visto da Longhi era, appunto, l’artista ‘rivoluzionario’ che spavaldamente aveva preso le distanze dal passato, rinnegando la tradizione figurativa cinquecentesca tutta intera, oltreché l’insegnamento degli antichi, e riconoscendo come propria vera maestra la sola natura. Così, quanto fosse stata decisiva l’«adozione, da parte dell’avanguardia artistica, del Caravaggio come fondatore della “tradizione del nuovo”» lo avrebbe con grande chiarezza riconosciuto Giovanni Previtali, uno dei migliori allievi di Longhi, usando queste parole: «si potrebbe a buon diritto incominciare una storia del problema critico “Caravaggio” con un paragrafo intitolato “un mito moderno: il pittore “rivoluzionario”, o qualcosa di simile»[2].

 

Ma la nozione di artista «rivoluzionario» non era certo nuova tra gli storici e gli scrittori d’arte in Italia, al tempo in cui le 015-imageAvanguardie ne fecero la nostra moneta corrente.

Già lungo i primi decenni del XIX secolo i più ferventi tra gli estimatori di Antonio Canova, quali furono Leopoldo Cicognara e Melchiorre Missirini, non esitarono a parlare di «rivoluzione nella statuaria» riferendosi al grande scultore veneto che si era saputo potentemente contrapporre allo stile «manierato e licenzioso» della tradizione barocca[3]. Accadde così che in Italia, fino nella stessa Roma papale, prendessero a circolare idee che erano partite, almeno cinquant’anni prima, dalla Parigi dei philosophes dove, in senso del tutto ‘anti-tradizionale’, già nel corso degli anni sessanta del Settecento si era per la prima volta auspicata un’arte che fosse «vera», «semplice», «popolare»: tutto quanto servisse a definirla come «moderna» in antitesi col cattivo gusto, col detestatissimo rococò[4]. Nel frattempo si era fatta la Rivoluzione francese[5].

Ebbene per tenersi al passo con l’Europa, gli Italiani non dovettero far altro che rivolgere lo sguardo verso la Parigi dei Salons: dove addirittura, alla metà degli anni trenta dell’Ottocento, il Caravaggio si era già rivelato come un «rivoluzionario», visto proprio con gli occhi di quell’epoca, per aver egli saputo rovesciare – così ne scrisse per esempio Gabriel Laviron nel 1834 – il sistema della pittura a lui contemporaneo in nome della «verità» e della «natura», nonché della necessità che la pittura fosse finalmente capita dal «popolo» e la si potesse giudicare da parte di tutti. Ma dobbiamo osservare che proprio negli stessi termini, per di più richiamandosi, com’è ben noto, alla pittura di Courbet, Longhi avrebbe più in là rilanciato il ‘suo’ Caravaggio rivoluzionario[6]: insomma, Longhi avrebbe utilizzato categorie di valutazione che in Italia erano disponibili da quasi cento anni, già definitesi in riferimento alla rivoluzionaria modernità di uno scultore del livello di Canova. Il fatto è che dopo Canova l’Italia moderna non aveva più conosciuto alcun artista che potesse veramente dirsi ‘rivoluzionario’ – ‘rivoluzionario’, intendiamo, come lo furono Courbet, Manet, Cézanne, Picasso, eccetera –: fu dunque necessario rivolgere lo sguardo verso il passato per trovarvi Caravaggio. Il più rivoluzionario di tutti!

 

Ancora sul Caravaggio di Longhi

A una tale immagine di Caravaggio «rivoluzionario» – tutta sostanzialmente ispirata a valori settecenteschi prima che ottocenteschi – Longhi non smise mai di credere pure quando, nei suoi anni più avanzati, si avvicinò all’estetica del Neorealismo. Com’era lui stesso a dire ancora nella sua monografia del 1952, ripubblicata con aggiornamenti nel 1968, «la critica caravaggesca italiana si apre nel primo decennio [scil. del secolo]», allorché gli Italiani, sempre preoccupati «di mettersi al passo con l’Europa», «hanno aperto la via a quella affermazione di critica in atto che è stata nel 1951 la mostra del Caravaggio e dei Caravaggeschi»[7].

Come a dire che gli Italiani, per non rimanere indietro rispetto all’Europa moderna, riscoprirono il loro Caravaggio per poterne contrapporre le opere con quelle prodotte dai grandi maestri del XX secolo! Caravaggio continuava dunque a essere visto da Longhi come un «rivoluzionario», per aver egli fatto «tabula rasa del costume pittorico del tempo che […] aveva elaborato una partizione in classi del rappresentabile, che, trasposta socialmente, non poteva idoleggiarne che i gradini più alti. Ma il Caravaggio si rivolgeva alla vita intera e senza classi, ai sentimenti semplici […]»[8]. Tabula rasa talmente inesorabile che persino la parola «Rinascimento» finiva per assumere sulle pagine del Caravaggio di Longhi una valenza negativa: in nome della «rivoluzione», l’era moderna non poteva che percepire il «Rinascimento» come cosa vecchia, cui contrapporre l’epoca nuova che Caravaggio aveva inaugurato[9]. Il mondo moderno era tale perché ambiva alla «rivoluzione»: qualunque cosa si contrapponesse al passato, alla storia dell’arte e, quindi, all’Italia rinascimentale e ancor peggio papale, doveva essere vista come «nuova», «moderna», in definitiva «rivoluzionaria». Oh Longhi, figlio dell’Illuminismo!

Unica fonte cui Caravaggio «rivoluzionario» potesse attingere era, secondo Longhi, quella che scaturiva ai piedi del «santuario dell’arte semplice» che già Lotto, Moretto, Savoldo e Moroni avevano innalzato. Perché la loro «arte semplice» era già di per sé rivoluzionaria, in quanto popolare, anti-tradizionale, anti-classica, per ciò stesso inconciliabile con alcunché di grande che si fosse prodotto a Roma, a Venezia, a Firenze durante tutto il «secolo paganeggiante», ovvero il Rinascimento contro il quale la rivoluzione dell’arte moderna si sarebbe implacabilmente sollevata.

Sta di fatto che ogni qualvolta Longhi facesse il nome di Michelangelo e di Raffaello, era per evidenziare l’inconciliabile contrasto tra il mondo vecchio di cui Michelangelo e Raffaello avevano fatto parte e quello nuovo che con Caravaggio si era per la prima volta rivelato: così il nome di Michelangelo e di Raffaello servivano a Longhi per evidenziare il dissenso, l’ironia da parte di Caravaggio, la presa di distanza di un uomo irriverente, dissacrante, moderno, appunto rivoluzionario la cui grandezza doveva in tal senso imporsi sullo sfondo della storia della pittura, sia passata che futura. Perciò rivolgere lo sguardo a Michelangelo e a Raffaello, o a qualunque altro modello antico, significava per Caravaggio «rinfocolarsi nell’indignazione che è pur un pungolo a fare tutt’altro»[10]. Tanto più che nel condurre questa sua così «ostica rivoluzione» contro l’antico, Caravaggio dovette guardarsi dal pericolo di cadere nell’«apologetica del corpo umano, sublimata da Raffaello o da Michelangelo, e persino nel chiaroscuro melodrammatico del Tintoretto»[11] (sappiamo bene, d’altronde, quanto Longhi odiasse Tintoretto, che tanto invece era stato amato da un Gabriele d’Annunzio).

Così, a proposito del riscoperto Bacco degli Uffizi, Longhi ne desumeva una «polemica palese» contro i «Bacchi di Michelangelo o del Sansovino, o persino quelli del Bellini e di Tiziano»[12]. Perciò proprio in termini di «polemica palese» Longhi si contentava di liquidare pure la questione del ‘venetismo’, fino a rinnegare un ipotetico «viaggio a Venezia» di Caravaggio[13], nonché a smentire la «fallace lettura “giorgionesca”» che delle sue opere era stata proposta – secondo quanto attestato dal Bellori – da parte di un ostile Federico Zuccari[14]: una lettura che suonava a Longhi persino come «calunniosa»[15], giacché un artista ‘rivoluzionario’ non avrebbe potuto attingere neppure alla gloriosissima storia pittorica di Venezia. La rivoluzione, in fondo, andava fatta pure contro la Serenissima.

A proposito della bellezza delle nature morte di Caravaggio, della loro inaudita resa ottica, Longhi ritenne sì di spendere il nome di Leonardo da Vinci, ma solo in considerazione di un «ironico ricordo della Cena leonardesca, vista negli anni di Milano»[16]; né passava per la mente a Longhi di sbrogliare il nodo che Caravaggio intese stringere col grande maestro di Vinci, rispetto alla cui fama – basti ricordare le pagine che Vasari aveva dedicato alle nature morte leonardesche – ci riesce oggi inevitabile pensare che Caravaggio giovane si ponesse in orgogliosissima competizione. Insomma, l’etichetta della «rivoluzione» impediva agli interpreti novecenteschi di cercare legami tra Caravaggio e la tradizione pittorica a lui precedente, tanto meno nei riguardi della tradizione classica. Etichetta che, dunque, impediva di risalire alla realtà dei fatti!

 

Il Caravaggio di Bellori e il Caravaggio di Scannelli

006-caravaggio_cena_emmaus-1Come già evidenziato da Previtali, Longhi ebbe bisogno di far leva sull’interpretazione che di Caravaggio si dovette a Giovan Pietro Bellori[17]: il teorico del classicismo seicentesco, favorevole ad Annibale Carracci, si era sì mostrato decisamente ostile verso Caravaggio, in particolare verso il Caravaggio ‘tenebroso’, da lui condannato non solo per certi suoi modi di vita dissoluta e per il «suo ingegno torbido e contenzioso», ma soprattutto per l’apparente inconciliabilità della sua pittura «nera» rispetto all’intera tradizione pittorica cinquecentesca, in considerazione dell’audacia rivoluzionaria con cui il maestro aveva dichiarato di voler disconoscere l’insegnamento dell’arte antica e di Raffaello; per non parlare, ancora, dell’effetto antinaturalistico e sgradevole di quei suoi fondali oscuri che annullavano ogni tipo di ambientazione, come invece la si richiedeva al pittore di storia. Ebbene furono proprio le motivazioni di tale condanna addotte da Bellori a suggerire a Longhi, come pure a tutti gli interpreti di Caravaggio fino ai nostri giorni, gli argomenti più decisivi a favore della lettura in chiave «rivoluzionaria» della sua arte.

Ma, prima di Bellori, a trasmetterci un’immagine di Caravaggio diversa era stato Scannelli nel suo Microcosmo della 028correggio_054pittura. Ora, mette conto osservare come tra i principali obiettivi del Microcosmo era stata – dietro consiglio di Guercino, amicissimo di Scannelli – la moderna rivalutazione di Correggio: una rivalutazione che era anzitutto antivasariana, ma che valeva in funzione dei successivi sviluppi della storia figurativa, a cominciare dalla riforma dei Carracci fino ai soffitti illusionistici di età barocca – dato che Correggio poteva a pieno titolo considerarsi, nell’uno e nell’altro caso, un anticipatore –; ma in un certo senso la rivalutazione di Correggio valeva pure in funzione del naturalismo caravaggesco. Tant’è che nel Correggio andava riconosciuto, finalmente, il vero caposcuola di tutta quanta la pittura lombarda.

Sta di fatto che Scannelli tentò di interpretare la maniera pittorica di Caravaggio, pure se così strepitosamente inaudita, rintracciandone alcune premesse nella tradizione pittorica cinquecentesca alla quale Caravaggio stesso aveva necessariamente guardato: non solo in riferimento alle opere di Leonardo[18], ma addirittura anche a quelle di Michelangelo (enormemente esaltato da Scannelli per la sua «mostruosa», colossale e isolata statura, paragonabile solo a quella dell’altro Michelangelo, il Merisi[19]); per non parlare di certi effetti «terribili» del naturalismo di Tiziano (la cui pittura «pastosa» poteva utilmente porsi a confronto con la ben diversa «pastosità» di Caravaggio[20]); ma, alla fine, era il caposcuola di tutti i Lombardi, cioè il Correggio che Vasari aveva tanto screditato in ragione della sua pittura senza disegno, a doversi intendere da parte di Scannelli come un anticipatore del naturalismo caravaggesco.
pietaCosì l’esame del Microcosmo della pittura ci ha indotti a ipotizzare persino un passaggio di Caravaggio per Parma e Reggio, per andarvi a cercare le pale Del Bono e la Notte. Certo, che Caravaggio fosse stato a Parma lo aveva ipotizzato anche Longhi: ma secondo Longhi Caravaggio ci andò per cercarvi – anziché gli angeli di Correggio, come ormai preferiamo pensare – la Deposizione dei Cappuccini di Annibale Carracci, dove «la Madonna svenuta è un anticipo per la Madonna morta dipinta dal Caravaggio quindici anni dopo»[21]. Addirittura Longhi aveva ipotizzato anche una sosta del Merisi a Firenze, così da stabilire un dialogo diretto con un altro rivoluzionario, cioè con Masaccio[22] (non dimentichiamo, però, che pure Missirini aveva associato Canova a Masaccio – un rivoluzionario a un altro rivoluzionario – quasi che Canova potesse esser visto come una specie di moderno Masaccio[23]). Sta di fatto che il ‘naturalismo’ di Correggio non faceva gioco a Longhi, il cui interesse per il grande pittore emiliano, approfonditosi in anni piuttosto avanzati, non si intersecava più, in alcun modo, con gli studi caravaggeschi da lui avviati fino dagli anni giovanili.025-caravaggio_deposizione_nel_sepolcro-preview

 

Attraverso l’esame del testo di Scannelli ho creduto insomma di poter risalire a un’immagine di Caravaggio che, a contrasto con quanto credeva Bellori, non era poi così inconciliabile con la ‘storia’; in tal senso, il Caravaggio di Scannelli mi sembra molto meglio rispondente alla sensibilità del nostro tempo: una sensibilità che, dopo i tanti disastri prodotti dalla fiducia nel futuro e nella rivoluzione, aspira a riconciliare il presente col passato, recuperando le tradizioni, le identità che stiamo perdendo, le cui radici affondano tutte nella profondità del nostro passato.

A tante considerazioni, che qui ci premeva esplicitare fino in fondo, la mostra di Zagarolo ha inteso ispirarsi.

 

 

Bibliografia

Cicognara 2007 [1824] = L. Cicognara, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova [Prato 1924], a cura di F. Leone, B. Steindl, G. Venturi, Bassano del Grappa 2007.

Haskell 1978 = F. Haskell, L’arte e il linguaggio della politica [1974], in Idem, Arte e Linguaggio della Politica e altri saggi, Firenze, SPES 1978, pp. 1-15.

Longhi 2006 [1968] = R. Longhi, Caravaggio [1968], a cura di G. Previtali [1982], Roma, Editori Riuniti, 2006 (1968).

Missirini 2016 [1824] = M. Missirini, Vita di Antonio Canova [Prato 1824], a cura di J. Bernardini, con un saggio introduttivo di C. Occhipinti, Roma, UniversItalia, 2016.

Occhipinti 2011 = C. Occhipinti, Diderot, Winckelmann, Hogarth, Goethe, Roma, UniversItalia, 2011.

Previtali 2006 [1982] = G. Previtali, Introduzione a R. Longhi, Caravaggio, a cura di G. Previtali, Roma, Editori Riuniti, 2006.

Scannelli 2015 [1657] = F. Scannelli, Il microcosmo della pittura [Forlì 1657], a cura di E. Monaca, con un saggio introduttivo di C. Occhipinti, Roma, UniversItalia, 2016.

[1] Dobbiamo rinviare al nostro saggio introduttivo a Scannelli 2015 [1657].

[2] Previtali 2006 (1982), pp. XV e XI.

[3] Si veda la nostra introduzione a Missirini 2016 [1824] e Cicognara 2007 [1824], VII, p. 63 e passim.

[4] Diverse testimonianze storiche si trovano a questo riguardo confrontate in Occhipinti 2011, pp. 44-45 e passim.

[5] Cfr. Haskell 1978, p. 3: «Naturalmente, solo dopo la generale politicizzazione della vita, seguita alla Rivoluzione Francese, alcuni termini, tuttora in

uso, quali “avanguardia”, “reazionario” e “anarchico”, entrarono largamente nell’uso di chi scriveva d’arte». In tal senso la nozione di «rivoluzionario» mai prima di allora adoperata in ambito storico-artistico, legata com’era al ricordo dei più recenti sconvolgimenti che avevano rinnovato l’intera Europa e mutato la percezione del presente e della storia, era destinata a entrare nel linguaggio della critica e della storiografia artistica italiana per restarvi praticamente fino ai nostri giorni.

[6] «Gabriel Laviron [Salon del 1834] può presentarci un Caravaggio “che fece una rivoluzione prodigiosa fra i pallidi allievi della scuola eclettica dei Carracci e rovesciò tutti i sistemi di pittura alla moda per sostituirvi lo studio vero e coscienzioso della natura”: “Le sue opere attrassero potentemente l’attenzione di tutte le classi della società, e di quelle soprattutto che sono di solito le più indifferenti al successo di un’opera d’arte. In effetti egli aveva scoperto la pittura del popolo, la pittura che può essere facilmente capita e giudicata da tutti, perché dà ad ogni cosa tutta a forza espressiva che può avere in natura, e non sacrifica amai nulla della intera verità degli oggetti» (Previtali 2006 [1982], p. XII).

[7] Longhi 2006 [1968], p. 172.

[8] Longhi 2006 [1968], p. 15

[9] Longhi 2006 [1968], p. 20.

[10] Longhi 2006 [1968], p. 31.

[11] Longhi 2006 [1968], p. 30.

[12] Longhi 2006 [1968], p. 16.

[13] Longhi 2006 [1968], p. 7.

[14] Longhi 2006 [1968], p. 7.

[15] Longhi 2006 [1968], p. 34.

[16] Longhi 2006 [1968], p. 27.

[17] Previtali 2006 [1982], p. XI.

[18] Rinviamo al nostro saggio introduttivo a Scannelli 2015 [1657], pp. 19 e ss.

[19] Ibidem, pp. 23 e ss.

[20] Ibidem, pp. 25 e ss.

[21] Longhi 2006 [1968], p. 8.

[22] Longhi 2006 [1968], p. 8.

[23] Rinviamo al nostro saggio introduttivo a Missirini 2016 [1824].

 

 

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