I documentari di «Storia in rete»


Sono diverse le ragioni per cui «Horti Hesperidum» rivolge adesso un’attenzione particolare a «Storia in rete», la rivista di storia diretta da Fabio Andriola.

Alcune di queste ragioni si fa presto a trovarle, già esposte sulle pagine dell’Editoriale del primo nostro fascicolo (2011): dove erano illustrate le intenzioni di metodo di una ricerca storico-artistica che vuole basarsi sull’esame delle testimonianze scritte del passato per avvantaggiarsi, altresì, della possibilità di elaborarle elettronicamente in vista di una loro immissione nella rete. Fatto è che questa ‘esigenza della rete’, per così dire, sta ovunque facendosi sempre più forte, fuori e dentro le università, tra i giovani e i meno giovani, finanche tra coloro che, coltivando le discipline più tradizionali della ricerca umanistica e dell’esegesi testuale, hanno e avranno sempre necessità di attingere alle risorse cartacee più tradizionali come sono il libro e il manoscritto. Ma questa diffusa ‘esigenza della rete’ comporta l’inevitabile riformulazione degli strumenti di lavoro dello storico che ormai non possono più prescindere dai sistemi automatici di archiviazione e di memorizzazione; così, altrettanto inevitabilmente, se cambiano gli strumenti di lavoro – grazie ai quali allo studioso è consentito di mettere a fuoco, partendo dal presente, una qualsivoglia percezione di fenomeni del passato per poi dare loro un significato – cambiano pure i prodotti stessi della ricerca, cambia la forma che tale percezione assume, in rapporto a modi sempre nuovi di trasmissione della conoscenza. In un simile scenario, poi, non è detto che la distinzione consueta tra circuiti accademici e circuiti non accademici abbia ancora senso.

Ora, dare tanta importanza, come intende fare «Horti Hesperidum», alle testimonianze scritte del passato significa in certo qual modo – ma non soltanto per chi studia storia artistica – immaginare di ritornare indietro nel tempo, per guardare, con occhi di epoca in epoca sempre diversi, quel presente mutevole che diventava subito passato. Significa cercare di comprendere modi di vedere e di interpretare sempre diversi nel tempo, cercandone le motivazioni storiche anche in rapporto agli strumenti di conoscenza e di comunicazione che erano di epoca in epoca disponibili. Ebbene pure oggi, proprio per effetto delle sollecitazioni che riceviamo dalla nostra stessa contemporaneità, da questa nostra civiltà iperspecializzata, multimediale e globalizzata, sentiamo più che mai l’esigenza di mettere a confronto i modi di vedere più diversi, appartenenti anche a epoche e culture diverse, perché solo in questo modo crediamo di poter assumere una più chiara consapevolezza del presente che stiamo vivendo e dell’enorme distanza che ci separa da chi, lontano da noi nel tempo (o nello spazio), attingeva (o attinge) a strumenti di conoscenza e di comunicazione diversi dai nostri.

«Storia in rete» è una rivista mensile di storia ma è anche un sito internet, come lo è «Horti Hesperidum». Obiettivo di «Storia in rete», come di «Horti Hesperidum», è di mettere ‘in connessione’ i materiali, le ricerche e le idee continuamente informate ai dibattiti storiografici di ogni tempo, lungo percorsi di trasmissione che siano in grado di unire tra loro i destinatari più diversi, e di raggiungere un pubblico vasto pur senza avere alle spalle nessun gruppo editoriale forte. Senza la rete, in buona sostanza, un simile obiettivo non sarebbe immaginabile.

Certo, «Storia in rete» è una rivista di divulgazione, di taglio programmaticamente giornalistico, che perciò non potrebbe sopravvivere senza trovare il pubblico vasto, in funzione del quale essa ha formulato il proprio taglio. Per contro «Horti hesperidum» è una rivista «accademica» – ammettiamolo pure, anche nel senso deleterio che il termine può assumere oggi – che si rivolge principalmente agli addetti ai lavori ma che, grazie ai percorsi imprevedibili che nella rete si diramano in forza dei motori di ricerca, riesce a raggiungere, o, meglio, a essere raggiunta da un pubblico variegato di studiosi di ogni nazionalità e di curiosi a vario titolo interessati alla ricerca storica e, soprattutto, alla consultazione delle fonti messe al centro di ogni attrattiva e così consegnate, possibilmente nella loro integrità, al pubblico.

Aggiungiamo una cosa. Fabio Andriola ha avuto il merito – e a pieno diritto ne va orgoglioso – di capire per quali vie e con quanto profitto possa esser trasmessa, anche al più vasto pubblico della televisione, l’emozione che lo storico di professione è in grado di provare, nell’isolamento delle proprie esplorazioni archivistiche e nell’esegesi delle fonti documentarie, nel momento in cui egli vede prendere forma sotto i propri occhi la verità dei fatti dopo aver provato ad ascoltare la viva voce dei più diretti testimoni del passato.

Perciò quando Andriola si rivolge a quegli storici che, in ambito accademico, si siano segnalati per via di loro ricerche di più alto e qualificato specialismo, chiedendo loro addirittura di apparire in televisione, compie a dir poco un miracolo: riesce a creare un ponte tra due mondi, quello dello spettacolo e quello dell’accademia, che sono più che mai distanti in un panorama come quello odierno dove la cultura e la ricerca scientifica si trovano di continuo mortificate già solo perché improduttive di audience. Anzi, al contrario, per Andriola a fare audience può essere anche lo specialista, persino quello più impacciato e timido, affatto abituato cioè a parlare sotto la vampa terribile dei riflettori fissando l’occhio di una telecamera che esige posture e atteggiamenti adeguati; come pure a fare audience può essere l’archivista che per pochi istanti si sottrae alla concentrazione del proprio lento e snervante lavoro di trascrizione e di esegesi delle fonti manoscritte per farle parlare nientemeno che di fronte alla platea televisiva. Perché lo spettacolo della storia, come Andriola crede fermamente, può affascinare molto di più del sensazionalismo di misteriosi intrighi pseudostorici, oggi così frequentemente confezionati ad arte da chi, il più delle volte estraneo al mestiere dello storico ma impegnato a inseguire quello del fabbricatore di best-sellers, mira esclusivamente all’audience.

Alessandra Gigante, che cura la regia dei documentari di «Storia in rete», contribuisce con maestria e sensibilità encomiabili a creare l’ambientazione più favorevole perché quel miracolo possa realizzarsi: il miracolo del passato che ritorna presente, quasi che lo spettatore possa vedere con gli occhi di un’altra epoca, assumendo uno sguardo straniante, al tempo stesso antico e moderno, sulle opere d’arte, sulle statue, sui dipinti, sui monumenti architettonici, grazie pure all’accompagnamento della voce narrante e al commento degli specialisti posti davanti alla telecamera. Inutile dire come dietro simili documentari sia sempre un attentissimo lavoro di studio e di aggiornamento bibliografico sui dibattiti accademici e sulle pubblicazioni scientifiche più recenti.

Un particolare ringraziamento alla fine, da parte della redazione di «Horti Hesperidum», anche all’attenzione che «Storia in rete» ha voluto da poco rivolgere alla Villa d’Este di Tivoli e alla vicenda del cardinale Ippolito II d’Este. Una vicenda che si è potuta in tempi recenti ripercorrere, anche con l’aiuto degli strumenti elettronici, sulla base di un meticoloso esame dell’immenso e ancora in gran parte inesplorato archivio estense: quell’archivio di Modena, ricordiamolo, oggi reso completamente inagibile a conseguenza del terremoto che ha di recente colpito d’Emilia, e che ci auguriamo possa tornare presto ad aprire agli studiosi i più seducenti sentieri di indagine e di esplorazione del passato.

Carmelo Occhipinti